di Giovanni Marcotullio
È trascorso qualche giorno dall’ultimo scambio avuto con l’esponente di Scientology Italia Luigi Brambani: ieri pomeriggio lo scientologist ha voluto proseguire la conversazione che avevamo avviato a seguito della sua richiesta di replica a un post di Lucia Scozzoli.
Ed eccoci qua: Brambani risponde alle quattro domande che gli avevamo mandato e, come già abbiamo fatto altre volte, volentieri pubblichiamo la versione integrale del suo testo. Devo dire che ho trovato le risposte meno elusive di quelle ricevute la volta scorsa, quando avevo avuto l’impressione che a domande chiare e dirette si rispondesse con un generico discorso sulla natura umana. Non mi impressiona certo il fatto che quando si parla di religione ci si trovi a discettare di antropologia – ci mancherebbe! –: resto però perplesso quando non riesco a distinguere granché oltre all’orizzonte antropologico. Se la religione fosse tout court antropologia,
- non si chiamerebbe in un altro modo, e
- avrebbe ragione Feuerbach – il quale invece si sbagliava.
Ma questo mi riporta a un colloquio avuto con un’attenta lettrice di Breviarium, che confrontava con me le proprie perplessità sul fenomeno religioso in genere: anzi, trovo che sia utile per rispondere alla prima osservazione di Brambani. Perché continuo questo dialogo con Scientology, nella cui organizzazione pure non entrerei mai? Puro “desiderio di conoscere”? Chissà: quante sono le cose nel cuore dell’uomo… di sicuro mi alimenta in parte anche un sincero anelito al dialogo interreligioso: proprio perché ogni giorno vivo la gioia di vedere quanto meravigliosa sia la risposta di Gesù Cristo alle domande dell’uomo – questioni che per primo esperisco e che confronto di continuo con gli altri –, da un lato sono serenissimo nel confrontarmi con chiunque creda e viva diversamente, dall’altro mi riempio di stupita apprensione al chiedermi come si faccia a vivere in pace senza poter dare soddisfazione alla sete di infinito che – a quanto vivo e so – nessuno può esaudire come il Figlio di Maria.
E non si tratta – stavolta devo dirlo – dell’approccio presuntuoso di chi “pretende di detenere la verità assoluta”. Le verità non sono mai assolute: sì e no lo saranno quelle matematiche, ma è lecito dubitare anche di questo. Le verità si esprimono in giudizî condizionati da mille cose, e dunque se non direi mai che esse sono relative (ecco un’affermazione seccamente falsa) neppure nego che siano sempre relazionali. Dio stesso non si considera ab-solutus dai contesti se non quando opera miracoli, e in tali eccezioni risultano confermate ed esaltate le leggi momentaneamente sospese. Insomma, non sono l’uomo della verità assoluta, me ne scusino quelli che cercavano pretesti in quella affermazione come pure quelli che ne avranno trovati in questa: le verità sono più o meno complete, più o meno comprensive… non riesco neanche a immaginare che una verità possa essere “più o meno assoluta”. Esistono il vero e il falso, ovviamente, ma pure un’infinità di sfumature di “parzialmente vero” e di “parzialmente falso”, che sussistono perfino nel meraviglioso palazzo della dottrina cattolica (o non si parlerebbe, in teologia, di “gerarchia delle verità”). Ne conseguono a mo’ di corollarî due considerazioni:
- le verità che si presentano come “più complete” perché “più comprensive” (ad esempio l’Islam che includerebbe e supererebbe il cristianesimo) sono spesso molto meno vere di quanto si mostrino: il sincretismo è la negazione di tutte le verità proprio perché vorrebbe farle sussistere a prezzo di relativizzarle tutte (come nel giudizio di Salomone, solo una “falsa verità” accetterebbe di essere messa sullo stesso piano di “verità” che essa ritiene appunto false);
- non sempre una mezza verità è cosa migliore di un’assoluta falsità (Pelagio fu uomo enormemente più santo di Stalin, ma il pelagianesimo è dottrina nettamente più pericolosa del materialismo storico).
Insomma, non ho controversie da condurre (non in questa sede): guardo alla mia vita e trovo che sia connaturata a Cristo come i miei polmoni all’aria; guardo chi dice di non respirare Cristo e sono fortemente in pensiero (ma direi anche in pena) chiedendomi che cosa respiri. Tutto qui.
Nella fattispecie, le risposte di Brambani continuano a non soddisfarmi, ma non dico ciò per accusare una sua qualche cattiva volontà (anzi, cento volte grazie alla sua disponibilità!): è che restano troppe cose sospese, troppi buchi aperti. Le categorie di “corpo” e “spirito” sono usate in modo non sempre coerente (e va bene che ci vorrebbe un’enciclopedia per spiegarsi con queste parole…); l’adagio di Tertulliano, che Brambani riprende, fa riferimento specifico all’evento dell’incarnazione e a ciò che quell’evento rende misticamente possibile nelle esistenze degli uomini concretamente rinnovati… a che titolo e in che misura sarebbe esportabile in un contesto privo di un momento fondativo e uno ricapitolativo dell’essere? Si parla poi di disegno intelligente e non si inferisce una deità volitiva e libera, dunque personale? Questo dà l’idea di voler evitare lo spinoso tema di “Dio”, che forse risultarebbe ostico a qualcuno e divisivo per molti…
Ma le “religioni filosofiche” hanno un po’ tutte questo difetto: nascono per evitare le immancabili frizioni date dalle religioni positive, legate a fondatori storici e a loro immancabili pretese salvifiche… e finiscono col non saper più rendere ragione di niente. Papa Francesco l’ha spiegato in modo particolarmente felice, a Santa Marta, la mattina del 18 aprile 2013:
Andare da Gesù, trovare Gesù, conoscere Gesù è un dono del Padre. È un dono. La fede è un dono. Un dono che abbiamo ricevuto nel battesimo ma che poi deve svilupparsi nella vita, svilupparsi nel cuore, svilupparsi nelle opere che facciamo. La fede è un dono, e chi ha questa fede ha la vita eterna. Possiamo domandarci: “Abbiamo fede?”. “Sì, sì: io credo in Dio”. “Ma in quale Dio tu credi?”. “Mah, in Dio!”. Quante volte sentiamo questo “in Dio”. Un dio diffuso, un dio-spray, che è un po’ dappertutto ma non si sa cosa sia.
E figuriamoci quando non si dice neanche “in Dio”. Chiaro che non può esserci l’audacia di una proposta etica: chi oserebbe dirti come è meglio vivere senza dirti che veniamo da un mistero d’amore e andiamo verso un mistero di gloria? Chi oserebbe parlare dell’eternità e del giudizio senza aver potuto dare la buona notizia di una salvezza data in un evento ben preciso, gratuitamente e per tutti?
Davanti a questo, come si vede, la faccenda del dualismo è quasi marginale: ha ragione Brambani a ricordare tra le righe che anche tanto cristianesimo è stato (ed è) dualista, ma al netto di eccessi individuali la fede nella risurrezione della carne ha sempre preservato perfino gli alessandrini dall’idea di un paradiso incorporeo. Come facciamo ad accontentarci di un “Ponte”? Un ponte per dove? Che ci aspetta di là? La pienezza? Ma anche gli gnostici sapevano che quando si diceva “πλήρωμα” si intendeva “Dio”, e il Dio di Gesù Cristo, il Dio unico ma non solo che è comunione di persone. E se manca tutto questo bagaglio dogmatico, la famosa “consapevolezza” di che cosa dovrebbe essere consapevolezza?
E naturalmente ci sarebbero molte altre domande da fare, ma sembra che Brambani ci saluti (nessuno pretende il contrario, anzi ancora una volta lo ringraziamo per l’attenzione e per il tempo dedicatici) rimandandoci alle fonti ufficiali di Scientology, reperibili nelle biblioteche. Di per sé prediligo le persone: il mio Λόγος si è fatto carne, non carta… Lo saluto anche io, e visto che proprio nella giornata di ieri ho riletto nel Breviario (eh, santo Breviario…) i sublimi capitoli 5-6 dell’Epistola a Diogneto, glie li lascio in calce al suo testo come biglietto da visita, tante volte volesse tornare a trovarci. È una pericope che sul dualismo antropologico costruisce una tensione sulla quale fa danzare come funamboli tutti i paradossi della mistica, dell’etica e della politica dei cristiani.
un modo di vivere
meraviglioso
di Luigi Brambani
Ferme le idee o credenze di ciascuno, mi pare di capire che c’è da parte sua un reale desiderio di conoscere e quindi rispondo una dopo l’altra a ciascuna delle quattro sue domande, unificando solo la prima con la seconda che mi sembrano richiedere un’unica risposta.
- Visto che professate uno smaccato dualismo antropologico, e che a quanto dite subordinate dichiaratamente il corpo all’anima, quale tipo di etica proponete per i bisogni fisiologici dell’uomo?
- Più nel dettaglio, che lettura proponete di quelli che vengono comunemente definiti “eccessi” del comportamento umano rispetto al cibo e al sesso? Non parlo solo di anoressia e bulimia, ma di ingordigia, appetiti compulsivi, masturbazione, stupro, feticismo ecc…?
Prima mi permetta di chiarire perché non avevo risposto. Solitamente non rispondo a domande che, per come sono formulate, contengono già un giudizio sulla risposta.
Il termine “smaccato” (esagerato, eccessivo) esprime un giudizio negativo, qualunque sia la risposta. Ne prendo atto e ugualmente rispondo.
Tanto premesso, il dualismo di Scientology è del tutto normale. Buona parte – forse tutte , salvo poche eccezioni – delle religioni e delle filosofie sono dualistiche (bene e male; luce e buio; logos e physis; logos e nomos; anima e corpo; uomo e dio; spirito e materia, ecc.) e sotto questo profilo Scientology non si differenzia. Ma non dichiara affatto che il corpo sia subordinato all’anima. Il modello di Scientology è che l’essere incarnato sia spirito o, meglio, ciascun individuo incarnato sia un frammento di spirito, un soffio, un pneuma, una consapevolezza di origine divina e sia anche corpo e che il legame fra i due sia rappresentato dalla mente ritenuta anch’essa un sistema, un’organizzazione materiale.
Mi rendo conto che i termini “spirito”, “mente”, “corpo”, dovrebbero essere precisati posto che ciascuno ha una storia risalente e contiene o trattiene i significati di tutti i contesti nei quali è stato usato, ma la risposta alla domanda diverrebbe troppo estesa. Mi pare però doveroso precisare almeno che per Scientology (e non solo) lo spirito e l’anima non sono termini equivalenti. Non solo, ma secondo Scientology la materia è sì subordinata allo spirito, ma non è una dipendenza, bensì una complementarietà.
Per meglio chiarire, l’unico accesso allo spirito dato all’essere incarnato è attraverso il corpo (tutte le pratiche di Scientology dirette al miglioramento spirituale passano sempre e solo attraverso al corpo). Anche l’esperienza d’amore passa attraverso il corpo. Anche l’esperienza sociale abbisogna del corpo: non possiamo conoscere l’altro o gli altri, se non contemplando il “riflesso” dello spirito nei loro volti, nelle forme dei loro corpi, sentendo le loro parole e condividendo come umanità, e in genere come vita, i luoghi dell’esistenza (così anche la materia, come luogo dell’incarnazione, è necessaria). Non vorrei, per rispetto, posto che ciascuno è geloso della propria letteratura, riferirmi a Tertulliano, ma davvero “caro cardo salutis”.
Scientology considera l’etica una dinamica (spinta, motivazione) di sopravvivenza altissima (la più alta di tutte le dinamiche di sopravvivenza e tutte le contiene), ma negli esseri incarnati è possibile solo come scelta e decisione individuale, soggettiva, per i bisogni fisiologici dell’uomo, la risposta è che dal punto di vista etico non propone nulla e ritiene la disciplina dei bisogni fisiologici dell’uomo legata alla morale o alle morali, cioè ai costumi e che come tale attraversi la storia. L’unica discriminate etica (posto che contiene implicitamente un giudizio sulla morale), è la misura maggiore o minore di sopravvivenza dell’individuo, della famiglia, della comunità, dell’umanità, della vita.
Questa è anche la risposta alla seconda domanda. Se i comportamenti e gli eccessi violano la morale e la discriminante etica, allora sono aberrazioni e quindi comportamenti sbagliati.
- Quest’uomo di cui parlate, «la cui esistenza si estende oltre l’arco di una sola vita», da dove viene? E dove va? Ha qualche cosa da fare? Qualche cosa da sperare?
L’uomo al quale fa riferimento Scientology non è diverso dall’uomo di cui parla la teologia e la filosofia, dai Veda a Platone o a Lévinas o a Panikkar. Alla fine è quello che cammina per le strade, che incontriamo ogni giorno, che vive e muore, che lavora e ama. Per Scientology non è l’uomo come essere incarnato a essere eterno: il corpo muore, eterno è solo ed esclusivamente quel frammento di spirito individuale, quel soffio, quel pneuma, quella consapevolezza di origine divina… l’unità consapevole di essere consapevole.
A parte gli scopi individuali, che differiscono da individuo a individuo, e a parte quello collettivo della ricerca della felicità in questo mondo, l’uomo non ha nella vita altro scopo che celebrare la vita stessa e ri-conoscere o imparare a conoscere l’esistenza, la natura e le leggi dell’universo. Fa quello che fanno tutti e spera le stesse cose che sperano tutti. Ha solo in più un sogno affatto particolare, ma non solo a lui riservato perché fondamentalmente umano, ed è quello di tornare da dove è venuto. Alcuni dicono tornare alla casa del Padre o, stranieri a questo, al proprio mondo, Scientology propone di attraversare un non facile “Ponte” che scavalca il vuoto dell’ignoranza e del male e del dolore e che unisce gli esseri alla conoscenza, alla comprensione, alla responsabilità e alla Libertà Totale dello spirito.
- Che differenza c’è tra chi aderisce a Scientology e chi non aderisce? Quali destini attendono gli uni e gli altri?
La domanda mi suona un po’ strana. L’unica differenza è che uno scientologist segue le pratiche e i riti di Scientology e studia la dottrina e si riconosce nella rappresentazione del mondo sopra accennata. In sostanza si muove su quel “Ponte verso la Libertà Totale”. Fa anche tante altre cose in relazione alla dottrina sociale di Scientology, ma la sostanza è che attraversa quel Ponte o cerca di attraversarlo.
Uno Scientologist non crede nel destino, crede che il futuro dipenda dalle sue scelte e dalle sue condivisioni. Uno Scientologist crede che in futuro possa esistere
Una civiltà senza pazzia, senza criminali e senza guerre, in cui le persone capaci possano prosperare e gli esseri onesti possano avere dei diritti, in cui l’Uomo sia libero di innalzarsi a più elevate altezze.
L. Ron Hubbard, Le mete di Scientology
Il futuro di ciascun essere spirituale può essere bello o brutto e secondo noi, adesso, abbiamo la possibilità, per quanto fragile, di renderlo bello per tutti.
Concludo ringraziandola sentitamente per lo spazio che mi ha fin qui concesso e aggiungendo che nel caso volesse conoscere altro non potrei che rimandarla alle opere di Hubbard, molte delle quali si possono trovare nelle biblioteche pubbliche.
Cordialmente.
di Autore ignoto (forse II secolo)
I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano.
Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo.
Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi.
Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono colpiti nella fama e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia.
Sono ingiuriati e benedicono, sono trattati ignominiosamente e ricambiano con l’onore. Pur facendo il bene, sono puniti come malfattori; e quando sono puniti si rallegrano, quasi si desse loro la vita. I giudei fanno loro guerra, come a gente straniera, e i pagani li perseguitano. Ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia.
In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo. L’anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile.
La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all’anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri sensuali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male.
Sebbene ne sia odiata, l’anima ama la carne e le sue membra, così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo. L’anima immortale abita in una tenda mortale, così anche i cristiani sono come dei pellegrini in viaggio tra cose corruttibili, ma aspettano l’incorruttibilità celeste.
L’anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore. Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è loro lecito abbandonare.
(dalla Lettera a Diogneto, capp. 5-6)
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