di Emiliano Fumaneri
Si è detto di tutto della vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi. Come da inveterata abitudine del sistema dell’informazione-spettacolo il rumore del chiacchiericcio (alludo in particolare agli articoli di colore sulla sua vita sentimentale) ha spesso oscurato la voce della riflessione critica. Almeno su Breviarium vorrei perciò dare spazio al pensiero di un inclassificabile come Jean-Claude Michéa, uno dei critici più acuti dell’ideologia liberale.
Come interpretare il trionfo dell’enfant prodige uscito dall’Ena, la scuola dove la République forma la sua classe dirigente? Intervistato dal Comitato Orwell, Michéa da buon filosofo tiene a ricordare che Emmanuel Macron è allievo di Etienne Balibar e di Paul Ricœur, la qual cosa gli ha conferito quel minimo di cultura storica e una capacità di analisi filosofica superiore a gran parte dei politici contemporanei. Non stupisce allora che Macron, osserva Michéa, abbia visto in maniera più chiara di altri il legame ideologico strutturale tra il liberalismo economico di Friedrich August von Hayek e il liberalismo culturale di un Michel Foucault (uno dei padri nobili, ancora più di John Money, delle teorie del gender).
Ma che cosa unisce due figure così differenti come Hayek e Foucault? È presto detto, con le stesse parole di Macron: «Il programma che porto è anzitutto un programma di mobilità».
Eccola qui, avrebbe detto Ivan Illich, la parola chiave di Macron: il mobilitarismo, l’ideologia del movimento per il movimento che sta al cuore del liberalismo e si esprime in quel progetto di “società flessibile” che si sviluppa per mezzo di una mobilità continua (o “flessibilità”) delle persone. La mobilità obbligatoria e generalizzata (tanto geografica quanto professionale) del mobilitarismo richiede una rivoluzione culturale permanente per sradicare le persone da ogni appartenenza legata a un luogo fisico. Da qui il culto della trasgressione morale e culturale sotto ogni forma, a cominciare dall’attacco alla famiglia (la parola ethos è legata all’oikos, alla casa, mostra Massimo Cacciari).
Il mobilitarismo ha una sua filosofia implicita: il mobilismo, una autentica metafisica della sconnessione. La realtà, secondo il mobiliismo, è relativismo assoluto. Non esiste un ordine, non si danno punti fermi, nulla è stabile. Tutto è mobile, tutto è sconnesso. È stato il mobilismo, scrive il filosofo svizzero Max Picard in Hitler in uns selbst, a preparare il terreno per l’affermazione del movimento hitleriano. In un mondo sconnesso come quegli degli anni Trenta la voce urlata di Hitler apparve come una delle poche realtà stabili in un mondo immerso in un flusso continue di idee e di cose sconnesse. In realtà non era altro che una voce più potente delle altre, capace perciò di sovrastare il rumore di fondo ormai insopportabile.
Ma torniamo al progetto mobilitarista.
Secondo questo schema sia il lavoro che la famiglia sono entità destinate a diventare placeless, senza luogo, non vincolate a un luogo fisico, a cominciare dal corpo sessuato di uomini e donne. È un modello che naturalmente ha dei costi sociali e psicologici ben precisi. Ciò spiega il tentativo di costruire una flessibilità sostenibile (è il concetto che sta dietro all’espressione flexicurity: flexibility + security). È questa, con ogni evidenza, la funzione assegnata a dispositivi come il poliamore teorizzato da Jacques Attali, l’enarca che di Macron è stato scopritore e mecenate.
Con la nuova affettività propiziata dal poliamore ogni relazione intima viene flessibilizzata per essere resa compatibile con le esigenze di una mobilità professionale che prevede solo impegni lavorativi di breve termine (no long term, basta col lungo termine, è la parola chiave della società flessibile). Il poliamore è perfettamente adatto a un modello socio-economico caratterizzato dalla volontà di rompere col passato: ogni individuo deve trasformarsi in un “uomo nomade” disponibile e suscettibile al trasferimento in base alle esigenze economiche. Per evitare che gli affetti siano antieconomici occorre che non oppongano resistenza allo sradicamento. No allora a ogni unione di lungo termine. È scontata l’osservazione: la famiglia nucleare, come unione stabile di un uomo e una donna e l’eventuale prole, in linea teorica e pratica non è conciliabile con l’imperativo della mobilità continua. Bisogna dunque che anch’essa accetti di essere “flessibilizzata” (ossia sradicata, che è quanto dire snaturata). TINA, There Is No Alternative, come recita il celebre slogan della Iron Lady Margaret Thatcher.
La formula che esprime al meglio il programma di Emmanuel Macron è dunque Hayek + Foucault. Hayek avec Foucault, direbbe Lacan. Il giovane presidente sotto questo punto di vista è in piena continuità col suo predecessore, il bolso François Hollande. Perfino scontata la sua adesione alla legge “decostruzionista” di madame Taubira, che ha snaturato il matrimonio. Ma non bisogna dimenticare che Macron, prima di abbandonare la traballante barca socialista per puntare all’Eliseo, ha dato il suo nome al contestatissimo Jobs Act alla francese, uno degli emblemi della sinistra liberale.
La start-up nation, l’ideale del macronismo, presuppone un self-made man che, per definizione, non deve nulla a nessuno, un essere che «essendosi definitivamente slegato da tutte le sue «radici» e da tutte le sue originarie definizioni, potrà finalmente agire per ricostruirsi «liberamente» e nella propria interezza (guidato dall’unico stoico scopo di non dover mai più dipendere né da una qualunque regione della terra, né da una cultura o da una lingua particolare e nemmeno, in termini generali, da alcun essere umano se non da se stesso)». (Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra, tr. it. Neri Pozza, Vicenza 2015, p. 32)
In questo, osserva il giovane Gualtier Bés, uno dei fondatori dei Veilleurs Debout (le Sentinelle in piedi francesi) e della rivista Limite, bisogna paradossalmente riconoscere un merito a Macron: quello di aver finalmente realizzato il “punto di perfetto equilibrio” del liberalismo. Emmanuel Macron ha riconciliato le due anime del liberalismo (il liberalismo del “mercato” e quello dei “diritti”), sicché d’ora in avanti apparirà con maggiore evidenza che non si può difendere la “famiglia naturale” e andare a braccetto coi nipotini di Hayek (come voleva fare, replicando per l’ennesima volta un copione mille volte andato in scena, un François Fillon).
Molto ben fatto. Il mobilitarismo è legato strettamente a substrati nichilisti. Questo inciso nell’articolo è particolarmente azzeccato nell’analisi “Il mobilitarismo ha una sua filosofia implicita: il mobilismo, una autentica metafisica della sconnessione. La realtà, secondo il mobiliismo, è relativismo assoluto. Non esiste un ordine, non si danno punti fermi, nulla è stabile.”
Per quanto riguarda noi, come Chiesa, torno a ripetere che proprio il “mobilitarismo” nel “senso del Sacro” ha incrementato la deriva nel rispondere adeguatamente a certe “sfide”.
Benedetto XVI, in questo, aveva colto bene la necessità di nuova sintesi, proprio a partire dalla Liturgia.
La cosa buona è che se c’è una deriva c’è anche la possibilità di un sano ritorno, non nostalgico, ma rivitalizzato. Anche perchè la morte produce morte e la vita, la pienezza di vita, alla fine è sempre vincente. Bravo Emiliano.
Bisogna proporre alternative vere a questo sistema di figurine intercambiabili. L’opzione Benedetto di cui si parla tanto – prossimamente ne parlerò – può essere un buon punto di partenza per una politica che parta prima di tutto da uomini radicati in ordine umano e divino.
Non posso che darti ragione. Come sai è motivo che porto e portiamo avanti da tanto tempo.
Ho letto con attenzione caro Emiliano … sottopongo a te, a Paul Freeman e a chiunque altri volesse intervenire … nei giorni scorsi su La Verità è stato recensito un libro (scusare non ho sottomano la copia) dove ci si chiedeva se siamo in una fase di degenerazione del liberalismo con i suoi oligopoli economici e culturali oppure siamo arrivati alla più “perfetta” realizzazione … io propendo per la prima ipotesi … anche perché forse per affezione non mi sento di buttare nel cestino tutta la cultura liberale … ritengo piuttosto che le “sentinelle” del liberalismo (non a casa distinguo dal liberismo) non abbiano vigilato a dovere … come nella Chiesa purtroppo … grazie ancora e un saluto
È un tema che oltrepassa di gran lunga questo post. Io direi in sintesi che la Chiesa ha criticato più volte il liberalismo (Jean-Yves Calvez, La Chiesa di fronte al liberalismo economico, 1994) e che senza negare alcuni meriti storici del liberalismo (come fa qui Giacomo Samek Lodovici), credo che si possa dire che se il liberalismo non si fonda sul rispetto di un ethos sia a forte rischio di una deriva totalitaria, come ben evidenziato da Michel Schooyans.
Un’antropologia che si volesse solo incentrata sull’individuo come atomo isolato senza appartenenze finirebbe per negare il senso originario della parola “libero”. Emile Benveniste nel suo famoso Vocabolario delle istituzioni indoeuropee mostra che tanto il latino liber (che stava per “figlio”) quanto il greco eleútheros sono legati all’appartenenza a una comunità. Il significato originario di «libero» non è quello di essere «liberato da qualche cosa», ma quello di appartenere per nascita a un popolo, che altro non è se non un insieme di famiglie. Sradicato e perciò non libero era lo schiavo (doúlos).
E così «volendo mettere la libertà dove non è, la si distrugge dove Dio l’ha messa. L’uomo che non accetta di essere relativamente libero sarà assolutamente schiavo» (Gustave Thibon). “Relativamente”, cioè sempre in relazione con qualcuno (il prossimo) o con qualcosa (l’ordine morale). Una libertà senza relazione e senza ordine è irrimediabilmente guasta.
Ottimo.