A p. 50 si trova poi lo spot di un DVD di Biglino in cui si spiegherebbe «la vicenda di Saul che è illuminante ai fini della comprensione di chi erano i “buoni e giusti” per l’Elohim di Israele». Mi spiace ma non ho il cuore di comprare (anche) il DVD: sto ancora cercando la spiegazione promessa sulla faccenda di Elohîm. E non la trovo. Qui Biglino vanta gli «anni di traduzione dell’ebraico masoretico per le Edizioni San Paolo» (51), ma nel dare prova di queste doti il nostro sembra tanto modesto quanto invece pare schietto nel rivendicarle. La spiegazione non arriva.
In compenso, segue un intero capitolo dedicato a gustose pericopi delle opere di Giuseppe Flavio: non si capisce in che modo debbano rispondere alla domanda su quella che Biglino aveva annunciato come “questione fondamentale”, visto che parlano di Noè e di Abramo, ma ce le prendiamo così come sono. In fondo al capitolo (pp. 70-71) una scheda riassume che, comunque, ruach è il rumore delle astronavi degli Elohîm e kavod è come chiamavano le astronavi. Ma per capirlo per bene, spiega Biglino, bisogna comprare i suoi libri. Gli altri.
Fermi tutti, arrivano ben due capitoli dedicati alla grammatica.
Biglino ribadisce quindi che gli Elohîm, i quali sono tanti, avevano assunto le funzioni di legislatori, governatori, giudici; che avevano fatto gli adam; che ci si erano pure accoppiati (già che c’erano); che sono mortali proprio come gli adam (del povero Salmo 82, messo a puntello di queste “tesi”, parleremo meglio trattando Gesù). I due capitoli proseguono con una serie di frettolose e parziali citazioni di casi che, uno per uno, troverebbero tranquillamente semplici e lineari risposte filologiche. Ad esempio Biglino afferma che Elohîm non può essere un plurale tantum perché ci sono diversi testi in cui ricorre insieme con il nome al singolare: come se un esegeta biblico potesse stupirsi di imbattersi in ripetizioni, parallelismi e merismi. Ma il meglio è sempre che il Nostro affronta i testi antichi con le categorie (filosofiche o linguistiche) moderne, rivendica che i suoi anacronismi metodologici siano leciti, e infine (come riporterò tra un attimo) copre tutte le proprie incoerenze procedurali con dei sontuosi “beh, comunque sono cose difficili e la grammatica mica la rispettavano, questi”. Insomma, Biglino, la rispettavano o no?
Gustosa anche l’obiezione per cui, quando si parla di Elohîm
siamo in presenza […] di un individuo concreto che mangia, beve, si sporca, si lava, deve riposare […]… Una concretezza drammaticamente materiale; nulla a che vedere con l’astrattezza dei termini che l’esegesi teologica pone a confronto nel tentativo di giustificare la desinenza plurale.
Non a caso infatti Umberto Cassuto (buon ultimo, ma non se ne trova traccia nella bibliografia di Biglino) osserva una differenza proprio in tal senso tra l’uso di YHWH e quello di Elohîm: il primo indicherebbe concretezza, il secondo astrazione. Non mancano i critici anche all’opera del Cassuto, che però vanta su Biglino il vantaggio incomparabile di partire dal testo e non da fantasiose ipotesi imbastite su silenzi irrimediabili.
L’arrampicata sugli specchi prosegue con surreali accostamenti tra gli usi plurali di Elohîm (quanto ai verbi usati) e il nome šoftîm (giudici), per “spiegare” le figure teofaniche dell’ultima parte di Gen e di Es. Si tocca il massimo del surrealismo quando Biglino afferma che, sì, anche mitsraîm significa “gli egiziani” o, per astrazione, “l’Egitto”… ma lì è diverso. Perché? Perché Elohîm sarebbe più astratto, più evanescente.
E infine Biglino sconfina nel Nuovo Testamento, sul quale però torneremo prossimamente. Qui resta un’altra cosa da osservare, circa le petizioni di principio del Nostro, e ce ne offre lo spunto proprio lui alla fine del capitolo IV:
Se il termine Elohim fosse singolare la Bibbia sarebbe un testo assurdo, incoerente, confuso e pressoché incomprensibile. Se, per contro, si dovesse rivelare veritiera la mia ipotesi, secondo la quale Elohim indica una pluralità di individui, il testo sarebbe chiaramente intelligibile da tutti, senza necessità di intermediazioni e interpretazioni.
(132)
La falsità della seconda affermazione risulta evidente non appena si considera che per 132 pagine (e per troppe altre ancora) Biglino afferma che non ci si può fidare di nessuno, nella lettura della Bibbia, per non uscire dall’interpretazione che lui ne dà. Dunque un interprete è certamente necessario, ed è lui. In effetti però “intermediatore” è meglio di “interprete”: dubito che Biglino voglia veramente fondare una nuova religione (le religioni sono cose che noi adamîm gestiamo a prezzo di fatiche sovrumane, e le sue fantasticherie sugli Elohîm dovrebbero averglielo insegnato); innegabilmente, però, egli si pone come chi offre una nuova rivelazione. Forse del nulla, dal momento che Biglino sembra foriero di una Weltanschauung nichilista, ma Biglino si pone come un mediatore.
E la prima affermazione? È vera o falsa? L’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa: l’accusa ha prodotto testi truccati, domande faziose, inferenze indebite, approssimazioni e minimizzazioni ad libitum… non si vede a che titolo possa chiedere che sia la difesa a rispondere.
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