Se aggiungiamo anche la critica di Feuerbach per cui le religioni tengono schiavi gli uomini con la paura della morte abbiamo davvero tutto. Salvo che Biglino ha (pure) il tic di ribadire che la Bibbia non promette a nessuno l’immortalità: questo però quando dimostra che “la Bibbia non è un libro sacro”, non quando rivela che “le religioni si fondano sulla paura della morte”. E pazienza se le argomentazioni confliggono insanabilmente tra loro: del resto è comprensibile, essendo “questo nuovo libro” «una corrente il cui flusso scorre con i pensieri che si richiamano gli uni con gli altri senza suddivisioni didascaliche». Il lettore è avvertito, bisogna darne atto.
Così si può leggere nella stessa pagina (58), anzi in due paragrafi consecutivi, quanto segue:
La sacralità e l’unicità di questo insieme di testi sono il frutto di una vera e propria imposizione che si è variamente sviluppata e concretizzata nei secoli con fini e obiettivi che nulla hanno a che vedere con la spiritualità e con la presunta purezza di un pensiero religioso distaccato e divinamente ispirato.
E subito prima si aveva:
[…] è fondamentale evitare tutte quelle riflessioni che nella voluta e ricercata complessità tendono a nascondere l’evidenza di un testo che, nella sua disarmante semplicità, nulla ha mai avuto di sacro.
Insomma, la Bibbia è il frutto di un complotto ordito a tavolino da un alieno particolarmente meschino (YHWH, nientemeno), ma leggendo questo stesso testo ingannatore con «ragionamenti semplici, chiari, coerenti» dovrebbe balzare agli occhi la matrice dell’inganno.
Se non ci si stupisce di come si possano ritenere “semplici, chiari, coerenti” certi fantasiosi bizantinismi, c’è perlomeno da stupirsi della coriacea e plurimillenaria resistenza di un dolo tanto palese… sarà il trucco della lettera di Poe, chi lo sa!
A proposito del richiamarsi di idee… sarà un caso ma scorrendo le pagine di questa innovativa esegesi ho riassaporato la memoria dei romanzi di Zecharia Sitchin e Peter Kolosimo. Davvero quasi le stesse trovate, in quei testi come in questo. E peccato che, anche qui, non ci siano citazioni a confermare l’esattezza della reminiscenza. Sarà che Biglino afferma di voler limitare la bibliografia al minimo indispensabile; sarà che certi genî arrivano per vie separate alle medesime verità (in fondo anche Newton e Leibniz scoprirono contemporaneamente, ma senza collaborare, il calcolo infinitesimale!); o sarà che anche alla Nasa tutti hanno letto Jules Verne e visto Fritz Lang, ma che nessuno ama mostrarsi debitore di romanzieri, quando ambisce a passare per “uomo di scienza” o “intellettuale”.
Questo un po’ mi stupisce per quanto riguarda Biglino, perché ho recentemente scoperto che sulla “sua” storia degli Elohîm tale Riccardo Rontini produce un suggestivo fumetto.
La si dirà una “Biblia Biglini pauperum”, che ha se non altro il pregio di illustrare plasticamente la profondità di un pensiero che nega l’esistenza di una divinità da cui innumerevoli persone attestano di essere state salvate, e afferma l’esistenza – per dirla col salmista – di «un dio che non può salvare».
Dunque la questione di/degli Elohîm è fondamentale, dice Biglino. Anzi, più esattamente:
Ho […] scelto di rispondere in modo circostanziato alla più importante delle contestazioni che l’esegesi giudaico-cristiana mi rivolge: quella relativa al termine Elohim, al suo essere plurale o singolare, al suo significare “Dio” oppure no.
Come si comprende bene, questa infatti è la questione di fondo, tutte le altre non ne costituiscono che il corollario e rivestono un’importanza di gran lunga inferiore.
È infatti fondamentale stabilire se la Bibbia parla del Dio unico oppure no.
(p. 9)
È un approccio che onestamente mi lascia senza parole: non perché mi impressioni la teoria in sé, che appare inconsistente a chiunque sia arrivato alla lezione numero 3 di ebraico biblico (e mano a mano che si procede con le lezioni appare sempre più inconsistente), ma perché Biglino le riconosce quest’importanza capitale, mentre tutto il suo procedere si fonda su asserti fragili quanto l’assurda pretesa di individuare un plurale laddove innumerevoli passi attestano per via verbale un soggetto singolare (e quindi un “plurale di astrazione”, tipico delle lingue semitiche… ma anche del greco, che per esempio chiama “il futuro” “τά μέλλοντα” [tá méllonta, le cose che stanno per essere]).
Allora precisiamo preliminarmente che אֱל [“El”], tutte le sue forme – abbreviate, piene o derivate – non sono native della lingua ebraica, bensì sono comuni al semitico nord-occidentale e alle lingue di molti dei popoli che hanno abitato la zona. S’intendono così richiamati tutti quei piccoli regni di cui il medio oriente antico era pieno, e le sovranità cittadine, o città-stato, disseminate per il territorio: Mari, Ebla, Ugarit, Meghiddo e via dicendo.
“El” era certamente un nome comune semanticamente coesteso al nostro “dio” o “divinità”, “nume” o “lare”: nessuna delle sue forme indica un nome proprio, se non per derivazione di eccellenza, come quando s’intende “capo degli dèi”, “padre degli dèi” (e per “padre” non s’intende certo ciò che la dogmatica trinitaria cristiana avrebbe elaborato nei secoli).
Un caso analogo a quello dell’ebraico Elohîm è dato dall’accadico Ilanu, che è il plurale di Ilu ed è perfettamente equiparato al suo significato singolare di “dio” (mentre mai accade l’inverso, cioè l’uso plurale della forma singolare).
Di’ cosa ne pensi