In Italia non se ne parla se non in alcuni circoli, tanto esigui numericamente quanto dotati di attenzione e capacità di elaborazione, ma negli Stati Uniti sembra essere diventato un tormentone ecclesiale globale: sulla “Benedict Option” si scrivono saggi, si dibatte alla radio, in televisione, sui blog…
Praticamente ogni amico e contatto che ho mi ha mandato qualcosa sul libro – ha scritto il vescovo statunitense Robert Barron – e mi ha sollecitato a commentare.
Dunque al cuore del tema c’è un libro ben noto tra i cattolici a stelle e strisce: il suo autore è il saggista Rod Dreher e s’intitola “L’opzione Benedetto: una strategia per cristiani in una nazione post-cristiana”. Il titolo ha il pregio della chiarezza: si tratta della sopravvivenza del cristianesimo in quanto tale in seno a una società che sembra aver ripudiato il conio cristiano da cui pure è venuta fuori. Il cenno a “una nazione post-cristiana” non si riferisce genericamente a “cultura” [culture], “società” [society] o “civiltà” [civilization]: si parla degli Stati Uniti. Nulla di più naturale, quindi, che il dibattito sia centrale oltreoceano e marginale qui da noi.
Ma qual è dunque la tesi? Che strategia è quella della “Benedict Option”? Significa applicare all’esistenza storica dei cristiani un metodo di resilienza quanto alla dimensione pubblica (e dunque etica e politica) della fede. In poche parole: fanno leggi contrarie alla fede cristiana? La scuola viene impostata ideologicamente e non ti piace come rischiano di essere indottrinati i tuoi figli? Disapprovi in toto vel in parte il piano di destinazione delle risorse pubbliche approvato dal tuo governo e vedi che tutto questo non dipende da questo o da quel partito, perché ormai veramente tutti nutrono un’ostentata indifferenza (quando non un’acre ostilità) nei confronti delle religioni in genere e del cristianesimo in specie? Quello che devi fare è comportarti come si comportò san Benedetto (da Norcia) quando le invasioni barbariche devastarono quel poco che della civiltà classica era stato risparmiato dalla sua autonoma decadenza. Anzi, a dire il vero mi pare che la tesi di Dreher possa in generale sostanziarsi meglio riflettendo adeguatamente sulla decadenza di Roma che già aveva preceduto le migrazioni dei popoli. Sì, l’autore parla anche di un “declino di Roma” che andava gestito, ma fin dalle prime pagine traccia delle coordinate leggermente idealizzate dell’antichità classica anteriore al V-VI secolo d.C.:
Conosciamo pochi particolari della vita sociale di Roma sotto il dominio barbarico, ma la storia mostra che una generale perdita di morale segue lo scuotimento di un ordine sociale di lunga durata.
(p. 14)
Gli esempi che seguono riguardano Parigi nel primo dopoguerra del Novecento e la Russia post-sovietica, dunque non vanno a sostanziare il presente storico dell’asserto qui sopra riportato con delle considerazioni afferenti alla tardo-antichità. Ed è un peccato, perché nella sua esistenza millenaria Roma aveva sopportato e respinto più di una volta delle ondate migratorie, anche feroci: quelle che la colpirono tra il V e il VI secolo non la lasciarono in piedi, e sembra strano che le ragioni debbano ricercarsi tutte nella straordinaria “barbarie” degli invasori.
Ma si troveranno forse altri momenti per parlare del libro di Dreher in sé: una volta che ne abbiamo espressa la tesi fondamentale, per quanto in soldoni, trovo più interessante confrontarla con la ricezione qualificata che se ne dà nell’ambito cattolico nazionale. Così ho trovato interessante il commento offerto da Robert Barron, che oltre a essere un quotato comunicatore è pure vescovo ausiliare di Los Angeles, e dunque quando parla di secolarizzazione sa pure cosa dice.
La maggior parte della gente sotto i cinquant’anni – scrive dunque Barron su www.wordonfire.org – afferma attualmente che le proprie convinzioni morali non vengono dalla Bibbia, e gli interdetti tradizionali, specialmente riguardo al sesso e al matrimonio, vengono respinti con aggressività. […] Per Dreher, la decisione della Corte Suprema riguardo al matrimonio gay, la sentenza sul caso Obergefell v. Hodges, che ha sostanzialmente sganciato il matrimonio dalle sue fondamenta scritturistiche e morali, è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Monsignor Barron afferma quindi che l’accentuazione di Dreher sul “gay marriage” non va intesa come un’ossessione dello studioso nei confronti delle persone omosessuali, ma è importante perché esprime la «convinzione, ormai comunissima, che la moralità sia fondamentalmente una faccenda di decisione personale e autorealizzazione». Il segnale in effetti è importante (ma vi si potrebbe riconoscere un punto di frattura con tutta la tradizione occidentale, anche precristiana, e non unicamente una manifestazione di ostilità al cristianesimo). L’ausiliare di Los Angeles ripercorre l’elenco delle proposte di Dreher per ravvivare la coscienza cristiana pur nel contesto dell’Occidente secolarizzato. I cristiani dovrebbero quindi creare strutture parallele per la resilienza culturale, come:
- praticare la scuola domestica per i figli;
- aprire “scuole di classicità cristiana”;
- curare una più bella e più riverente arte della celebrazione liturgica;
- ravvivare una più fervorosa pratica ascetica;
- promuovere un più profondo studio biblico;
- combattere la pornografia;
- sfidare la tirannia dei nuovi media
e diverse altre cose. Tutte giuste e buone, a ben vedere. Anzi, qualcuno potrebbe comprensibilmente trovarle perfino ovvie, se non fosse che tanta confusione dilaga a più livelli degli stessi ambienti ecclesiali. Ma il problema è un altro, e Barron lo evidenzia col già collaudato nome di “dilemma tra identità e rilevanza”:
Più enfatizziamo l’unicità della cristianità, meno sembra che la fede parli alla cultura mainstream; e più enfatizziamo la connessione tra fede e cultura, meno incisiva la cristianità pare diventare.
Un paradosso niente male che però, avverte mons. Barron, riguarda l’essenza del cristianesimo nella storia (e dunque non è un riflesso accidentale di un’epoca, per quanto inedita sotto diversi aspetti).
La proposta del prelato è quella di ispirarsi a figure come quella di Giovanni Paolo II, che hanno saputo coniugare identità e dialogo con un’attività apostolica e una produzione culturale di primo rilievo. Dunque Barron non esclude la Benedict Option, e si capisce anche che sarebbe avventato farlo, da parte sua, laddove molti cattolici sembrano attualmente trovare in quella proposta uno strumento di elaborazione che, per quanto limitato, non può essere condannato senza arrecare danno (o anche scandalo) ad alcuni fedeli.
Altrettanto interessanti, però, sono pure le reazioni dei lettori del blog, che pur apprezzando la sintesi pastorale di Barron (del resto corroborata da un giudizio teologico equilibrato e prudente) non smettono di muovere in vario modo un’obiezione che sostanzialmente è questa: «Siate nel mondo ma non del mondo» è un precetto di Cristo, e dunque una formula che declini questo comando nel nostro contesto non deve essere condannata ma non può spacciarsi per una novità; d’altro canto il cristianesimo non è mai vissuto nelle catacombe neanche ai tempi delle catacombe, e resta non meno vero che anche quello di essere «sale della terra e luce del mondo» è un comando di Cristo.
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