Ama e ridi, se amor risponde,
piangi forte se non ti sente:
dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fiori.
Pensavo che De André, caro compagno di diecimila ore di poesia, fosse il padrino ideale per questo colloquio. Ora che lo abbiamo svolto tutto, e che tutto lo proponiamo ai lettori di Breviarium, non ne sono più così persuaso. Sì, mi sorridono le analogie nei titoli, e soprattutto in questo – Gesù è davvero l’ostinato ma onnipotente Illuso che ci raggiunge nelle nostre Via del Campo, dove tutti ci buttiamo via per pochi spicci –; ma la verità è che la storia di Marta, raccontata in questi tre colloquî, lascia indietro le categorie di De André come in un fulmine il lampo si scorda alle spalle il tuono. Originano dallo stesso fatto, si direbbe, ma in un istante già si vede il primo saettare «da un lato all’altro del cielo» e il secondo arrancare e perdere pista, dietro, col frastuono di chi si trascina un peso infinito. Lo dice la ragione, sì, che uno solo è l’evento da cui nascono il lampo e il tuono. È scienza. Così allo stesso modo sappiamo che una sola è la vicenda cantata da De André e narrata da Marta.
Eppure il finale di Via del Campo, che ho riportato qui sopra, piacerà al lettore molto di più prima della lettura del colloquio di quanto potrà fare dopo, se vorrà ritornarvi per sperimentarlo. Che dal letame nascano i fiori, in effetti, è solo una mezza verità, mentre il segreto di tutte le parabole del Regno, che sempre lanciano dardi verso la risurrezione, è il seme. Tutto il letame del mondo, senza seme, non è altro che una mefitica montagna di merda. E il seme non è scontato, non lo è mai.
«Dove c’è dolore, lì c’è terra benedetta», scriveva Oscar Wilde nel suo De profundis, e aggiungeva: «Un giorno la gente capirà che cosa questo significhi».
Ma anche lui, almeno in quel testo, resta indietro rispetto al racconto di Marta. Irrecuperabilmente. Perché Wilde ha espresso una verità non meno parziale di quella di De André. Il punto è che la fede nella risurrezione si dimostra ragionevole proprio perché il dolore, di per sé, è solo un’inutile pena; e tutto il letame della storia non avrebbe potuto far germogliare neanche una violetta.
Ciò che è nato dalla carne è carne, ciò che è nato dallo spirito è spirito,
dice Gesù. Il punto è il seme. Oggi con Marta parliamo del seme che il Signore ha piantato nel suo giardino. Così suggerisco ai lettori di Breviarium di stemperare con la poesia di Claudio Chieffo (non meno ispirata di quella di De André!) il retrogusto amaro che, dopo la lettura delle parole di Marta, potrà dare l’ascolto del Genovese.
Il Signore ha messo un seme
nella terra del mio giardino.
Il Signore ha messo un seme
nel profondo del mio mattino.Io, appena me ne sono accorto,
sono sceso dal mio balcone
e volevo guardarci dentro,
e volevo vedere il seme.Ma il Signore ha messo il seme
nella terra del mio giardino.
Il Signore ha messo il seme
all’inizio del mio cammino.Io vorrei che fiorisse il seme,
io vorrei che nascesse il fiore,
ma il tempo del germoglio
lo conosce il mio Signore…
G. A quanto mi hai detto nei giorni scorsi, sembrerebbe che il tuo primo “luogo teologico”, il momento in cui hai incontrato Dio nella tua esistenza, sia stata la rabbia. Dicesti che mentre scendevi in strada sfidavi Dio “come Giacobbe sullo Jabbok”. È una rilettura a posteriori o proprio in quel momento, tra le droghe e la vertigine dell’autodistruzione, formulavi questo pensiero?
M. La lettura teologica è senz’altro a posteriori perché prima non conoscevo le Scritture e tanto meno Giacobbe. Ma è verissimo che ho pronunciato dentro di me quelle parole, questo grido di rabbia e disperazione a Lui e solo a Lui. Da sempre lo cercavo, volevo proprio incontrarlo personalmente, sapevo che c’era ma io volevo vederlo e toccarlo (come S. Tommaso?). Non mi bastava la liturgia in chiesa, mi guardavo intorno e mi dicevo: «Ma dov’è? dov’è? dicono che c’è, ma porca miseria dove cavolo si nasconde?». Gli unici momenti in cui lo sentivo eran quelli di intimità, faccia a faccia con Gesù nel Tabernacolo tutte le mattine prima di andare a lavoro. Per il resto, durante le Messe, nulla, non sentivo nulla e mi scocciavo pure che gli altri sembrassero tanto contenti di averlo trovato ma a me non ne davano. Era davvero una cosa insopportabile.
In qualche modo ho lottato tutta la vita come Giacobbe con Esaù per ottenere la primogenitura e perciò la benedizione paterna e ho usato tutta la furbizia di cui ero in possesso. Non tanta evidentemente, perché poi Giacobbe ne esce zoppo dalla battaglia sul guado con l’angelo del Signore. Una fatica industriale insomma, con conseguenze segnanti e irreversibili, ma non rinnego nulla. «Ti chiamerai Israele – gli disse – perché hai lottato con Dio».
G: «Con Dio e con gli uomini – precisa il testo, soggiungendo: – e hai vinto». Tu cosa hai vinto?
M. La felicità! la pienezza, la vita eterna!
G. Pensi che sarebbero parole significative per Susy, che ricordavamo l’altro ieri? Cosa sono “la felicità”, “la pienezza”, “la vita eterna”, per persone che – almeno viste da fuori – sembrano aver disimparato la grammatica fondamentale degli affetti e dei desiderî umani?
M. Ah! Un frate qui diceva che i tossici sono i più grandi mistici, o almeno lo sono in potenza. Vedi il discorso del “desiderio” e dell’“eros” è fondamentale nei più grandi santi di tutti i tempi. Più ne hai e più forte è la spinta (potenziale) verso Dio, cioè la pienezza, il senso, la felicità. Il tossico è colui che più di ogni altro ha un desiderio e un bisogno abnorme di ottenere piacere, un abisso da colmare. In sé è un ottimo punto di partenza. Il problema è come poi vai a colmare questo desiderio di piacere, di pienezza. C’è una vertigine da affrontare quando ti affacci davanti al baratro del tuo bisogno: abisso chiama abisso, diceva un salmo – amore chiama amore.
Susy aveva visto questo abisso, Susy aveva anche visto una luce in me dopo quei tre anni. Ne era rimasta catalizzata, come tanti che ancora incontro. Ma lì c’è l’opzione da giocarti, la tua libertà che non è delegabile: stai intravvedendo qualcosa, a te scegliere a chi o a cosa abbandonarti. La parola “peccato” etimologicamente vuol dire proprio questo: sbagliare bersaglio.
G: Vuol dire anche questo, certo, insieme con altro. Ma dici che lo cercavi nel tabernacolo “tutte le mattine prima di andare al lavoro”. Che lavoro era? E questo quando? Prima, durante o dopo quei sei mesi?
M. Certo prima di quei sei mesi (in cui per altro andavo lo stesso ogni tanto a Messa trascinata da mia sorella). Ero un’assistente domiciliare e dei servizi tutelari: seguivo persone anziane e malati mentali sia a domicilio che nelle strutture (ma di lavori ne ho fatti anche tanti altri). Io non so come spiegarla, ’sta cosa qua, ma nonostante tutto, in quella vita precedente da “brava ragazza” io credevo già fortemente in Gesù e lo ritrovavo nelle piaghe degli ammalati. Quando curavo quelle piaghe davvero io pensavo che curavo le piaghe di Gesù. Ricordo perfettamente che una delle esperienze più scioccanti fu quella di una donna in una casa: quando entrai nella stanza mi assalì un lezzo di morte, misto ad umori umani di ogni specie. Mi avvicinai, nella penombra, a questo corpo infermo, girato su di un lato, in posizione fetale. Sollevai il lenzuolo: davanti a me trovai un’immensa voragine nera. La piaga di questa donna si estendeva dal collo sin giù al fondoschiena,allargandosi sino alle costole. Insomma, non c’era più schiena, ma solo un immenso squarcio nero dall’odore nauseabondo di feci, urine e carne in necrosi. Eppure la donna parlava tranquillamente. Non seppi fare granché: non si capiva niente in questa voragine nera. Cercai di togliere un po’ di feci. Ma non finiva mai. Provai a medicare tutti i bordi della piaga… ma vidi qualcosa che non era né pelle né carne: erano le sue ossa. Cercavo di non manifestarle il disagio e il disgusto che questa ferita maleodorante e senza fine mi procurava… pensai ancora una volta a come amarla. Come fare qualcosa di quasi inutile ormai, ma amandola. Perché era chiaro che l’unico senso che questa assurdità poteva avere era il provare ad amarla oltre ogni ribrezzo fisico e sensoriale. In questa folle Croce, infatti, lei era serafica. Conversava amabilmente, come se niente fosse, come se non provasse alcun dolore, come se neanche fosse consapevole dello stato in cui era. La prova non era più per lei, ma per me. Ecco dove, in quei dieci anni, io conobbi e incontrai Gesù.
Difficile poi spiegare ad una ragazzina di 15 anni, abusata e messa incinta dallo zio, chiusa in una comunità promiscua tra ex-detenuti, tossici e gravi schizofrenici, e perciò – ma non solo – illegale, come farle capire che non doveva piangere per la nostalgia di quest’uomo, per il quale abortì ripetutamente infilandosi un ferro uncinato nella vagina (come c’è riuscita?) feti a mesi già avanzati di sviluppo? Piangeva, piangeva… perché voleva tornare dallo “zio”. Per andare a lavorare in questa struttura passavo tutti i giorni davanti alla salita del Carmelo. Si chiamava proprio così! Anche a questa ragazzina io non sapevo che dire. Cercai solo di starle vicino, per non farle sentire la mancanza di quest’uomo e non farle provare rabbia per l’assurdità e lo “sbaglio” del luogo in cui si trovava. Ma ancora una volta io, nel luogo “sbagliato”, ho incontrato Gesù. Quante potrei raccontartene di storie così… Quanto Gesù crocifisso ho abbracciato in tutta la mia vita! Quanto insensato e folle amore!
G. Accidenti! In alcuni passaggi mi hai ricordato esperienze che ho vissuto pure io, ma la mia Gabriella – penso a lei in particolare – era un’ostia pura, una vittima immacolata. Tu fai riferimento, invece, a storie purulente in cui nessuno è veramente innocente, se non in quanto espia nei proprî dolori colpe altrui, oltre che proprie… Eppure aveva ragione De André quando cantava:
Se tu guarderai e giudicherai da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni (più le spese);
ma se capirai… se li cercherai fino in fondo…
se non sono gigli, son pur sempre figli (e vittime) di questo mondo.
E oltre a tutto questo il dono della fede, che già avevi ricevuto, ti permetteva di scorgere Cristo piagato in quelle ferite, anche in quelle piene di colpa. Ma allora non capisco in che senso tu dicessi di volerlo vedere “come gli altri” che ti parevano così pieni della loro “tranquilla” vita parrocchiale. Non lo stavi vedendo già più di così?
M. No, non mi bastava, o almeno ad un certo punto non mi è più bastato. Ero ingorda! E poi ho sempre mantenuto una certa inquietudine interiore (benché ad occhio non profondo non appariva). Non ero felice. Mi mancava qualcosa di fondamentale. Tolto il lavoro, io Gesù lo perdevo. E una cosa così è inaccettabile, se non addirittura falsa o ambigua. Non avevo pace. Non ero ancora entrata nel “riposo di Dio”. Era necessaria una bella Pasqua perché ci entrassi.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
vivere nella sua casa
per tutti i giorni della mia vita.
Questo salmo traduce perfettamente il bisogno che avevo di pace interiore. Sant’Agostino direbbe: «Il mio cuore è inquieto sin quando non riposa in Te».
G. Quand’è che Dio ha accettato la tua sfida?
M. Subito! Ha accettato subito poverino! Non gli sembrava vero che gli aprissi finalmente un varco nella mia superbia e prepotenza.
Fu proprio quel mio ultimo grido di dolore e di disperazione che ha squarciato i cieli e tirato giù tutti gli angeli ed i santi dal Paradiso.
È chiaro poi che il grido interiore si accompagna a gesti precisi, e a quelli miei son succeduti quelli di Gesù che inizialmente si è mosso verso di me attraverso gli altri e alla fine, dopo tre anni, mi si è mostrato personalmente, in carne ed ossa, come uno spasimante al suo primo appuntamento con l’amata. Son stata furba – pur nella stoltezza – perché lì qualcosa davvero ha iniziato a muoversi, anche se io lo vedo solo oggi dopo tanti anni. Un piano straordinario ha iniziato a dispiegarsi, coinvolgendo persone da tutta Italia. Da Roma a Torino infatti mio cugino ha coinvolto persone che conosceva per aiutarmi. Veniva a casa, trattenendo preoccupazione e dolore, seguendo pedissequamente le indicazioni di suore e di un suo amico (che io feci attendere per ore sotto casa, prendi appunti per la sua canonizzazione grazie) dell’associazione nazionale dei Papa Boys di Roma. Quando andavo in strada infatti non ho mai incontrato le fiaccolate per le ragazze di strada che vanno tanto di moda oggi, né qualcuno di quegli “angeli della strada” di quelle associazioni di volontari e operatori del sociale. Per questo infatti non credo molto a queste associazioni. Né io né gli altri che incontravo in strada infatti li hanno mai visti; e se mai li hanno visti, di sicuro li hanno maledetti per averli costretti a cambiar strada – per battere o drogarsi o spacciare. Tutta gassosa per muovere capitali e mettere a tacere le coscienze dei moralisti che, come me prima, credono di esser “buoni” e “giusti” a praticar l’assistenzialismo fine a se stesso, un filantropismo integrale direbbe la buonanima di Achille Campanile.
No, a me non m’han salvato le cooperative sociali, a me è venuto incontro direttamente Dio attraverso i piedi e le mani di persone apparentemente insospettabili e lontane.
G. Prima la domanda “mistica”: hai detto che in molti ti hanno proposto di sposarli… e non hai accettato. Pare che tra i tuoi clienti sia venuto anche Gesù, a farti la stessa offerta. Perché con lui ci stai pensando?
M. Beh non è che ci stia “pensando” molto: l’ho fatto e basta (accettare), senza calcolo, ma gran timore e gratitudine. È un po’ come per la Samaritana o per Maria di Magdala: quando hai avuto tanti “amori” – ma anche tanti demoni – poi te ne accorgi quando arriva l’amore vero, quello che ti seduce, ti guarisce, ti libera, ti appaga, ti fa fiorire. L’amore se non è liberante, se non permette che l’altro sia pienamente se stesso, non è vero amore. Ecco io, per la prima volta nella vita, ho potuto essere me stessa. Non mi devo più sforzare di essere ciò che non sono. Mi sento amata così, senza sforzo alcuno per guadagnarmelo. Io e lui stiamo benissimo insieme, ci divertiamo un mondo, lo faccio pure ridere: insomma gli piaccio davvero. Ed esser stata scelta mi fa sentire davvero “fortunata”.
G. Un’altra donna, che pure si è prostituita, ma per anni e sulla celluloide, non sull’asfalto, è solita ripetere – nel raccontare la propria esperienza di conversione –: «Gesù ha rifatto la mia verginità». Le vostre storie sono diverse e non paragonabili, ma io ricordo di aver letto affermazioni simili anche nella storia di santa Maria Egiziaca e in diverse pagine dei Padri. Tu hai mai pensato questa cosa “forte”? Ora che ti sei consacrata, ti senti anche “like a virgin”?
M. Sì! Preferisco pensare alle mie Sante preferite, Angela da Foligno e Margherita da Cortona, e poi, certo, mi rendo conto che una certa malizia, vanità, esuberanza ed egocentrismo ci sono ancora… ma mi sento perdonata anche in questi “difetti”: so che il Signore mi guarda e mi sorride, come un padre guarda la sua piccola con tutto il suo bisogno di attenzioni.
G. Si vede, si vede. Torniamo alla seconda domanda, quella storico-biografica che dovevi aspettarti dopo quella “mistica”: posto che Cristo non ha bisogno dei piedi della gente per entrare nei cuori degli uomini, chi sono quelli che ti ha mandato? Quanti incontri del genere ci sono stati? Me li racconti?
M. In verità son tutte persone di Chiesa quelle che hanno provato ad aiutarmi inizialmente, ma i loro tentativi di irregimentarmi fallivano. Sì, la loro solo presenza, il provarci, per me è stato segno di una presenza affettiva, mi son sentita finalmente considerata e al centro di un’attenzione, anche se poi la forma era tale per cui la rifiutavo.
I miei samaritani son stati gli operatori della comunità, quasi tutti non credenti o comunque poco “praticanti”. Vedi, io il primo anno l’ho passato imbottita di farmaci, prendevo sonniferi mattina, sera e notte. Avevo la bava alla bocca, non mi lavavo, non mangiavo, piangevo sempre, mi nascondevo nei bagni, mi trovavano coricata sui tavoli al buio nelle stanze chiuse, non riuscivo a camminare. Beh loro mi han voluto bene e han sofferto con me quello stato di totale depressione e han usato tutti i modi per farmene uscire. Chi mi ha preso a urla, chi mi stanava nei bagni, chi mi buttava giù dal letto, chi di peso mi prendeva le gambe quando non volevo uscir dalla macchina dopo una visita in città, chi mi spingeva facendo trenino per farmi camminare, chi mi prendeva a braccetto quando pioveva ed io tremavo di paura per il brutto tempo e mi prendeva in giro come una vecchietta, chi mi faceva ridere quando mi salutava: «Dai andiamo, “non ce la faccio”!» (perché questo era diventato ormai il mio tormentone e quindi secondo nome). Con infinita gratitudine ricordo anche una compagna, con cui litigavamo sempre (perché anche da cadavere evidentemente avevo un certo caratterino), ma che un giorno mi prese ad urla e mi fece fare una scelta importante. Mi dissero: «O ti togli tutta ’sta terapia o vai nel centro di doppia diagnosi [per malati mentali N.d.R.]!». Io in verità ero talmente depressa e arresa che stavo scegliendo di esser mandata lì, così non avrei più dovuto lottare e sarei rimasta sotto farmaci, come un cadavere per tutta la vita. Ma no: lei, la mia amica -nemica, mi urlò talmente tanto, strattonandomi pure, che rinsavii! Benedetti siano i nemici di tutti i tempi e tutti i luoghi.
Ringrazio ancora con tutto il cuore tutte queste persone, a cui davvero devo la vita.
G. E a proposito di scene truculente, come mai ti è piaciuto quel cruento passo di Ezechiele che più volte hai richiamato?
M. Beh, parla meglio di me Ezechiele stesso, vedi tu se non ti fa piangere a dirotto una cosa così :
Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita.
Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta.
Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta; ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo: misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Così fosti adorna d’oro e d’argento; le tue vesti eran di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre più bella e giungesti fino ad esser regina. La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era perfetta, per la gloria che io avevo posta in te, parola del Signore Dio.
Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante.
G. Un passo suggestivo, senza dubbio, ma non credo che abbia causato in tutti i suoi lettori la stessa commozione emotiva e spirituale che ha prodotto in te. La Scrittura ci tocca in modi diversi a seconda di quando, e quanto, e come, ci svela a noi stessi rivelandoci Dio che viene a salvarci. Mi pare di capire che ti sei sentita narrata da questo passo, e in una luce benevola, salvifica. Riesci a recuperare i pensieri di quella prima volta che l’hai letto? E quale fu il link che “per caso” ti portò a sbattere su questa pagina biblica?
M. No, non ricordo il link. Era uno di quei post con frasi tratte dalle Scritture che spesso si pubblicano su Facebook. Però ebbe quella risonanza dentro di me per tutto il mio contesto di allora. Son successe davvero tante, tante cose straordinarie e densissime in quei mesi… Innanzitutto ti accennai che il Signore mi ha preparato e corteggiato a lungo per quell’incontro, anche se poi queste cose le capisci e riconosci solo molto tempo dopo che ti son successe.
Una di queste fu senz’altro quando lessi il libro che io definisco della mia conversione: Piedi di cerva sulle alte vette: viaggio a Dio attraverso il Cantico, di Hannah Hurnard. È un libro, in realtà, che da anni provoca numerose conversioni in tutta Europa.
G. Me lo menzionò per prima una ragazza che, difatti, prese anche lei più o meno in quel periodo la risoluzione di consacrarsi a Dio.
M. Per contestualizzare meglio però devo aggiungere che in quei mesi, poco dopo esser uscita dalla comunità, io stavo già ricadendo – non nelle droghe, ma nei rapporti sessuali. D’improvviso ho visto la bestia che c’era in me e ho desiderato fortemente fare voto di castità, proprio perché ho constatato come mi era impossibile sottrarmi a quella modalità che è tipica del mondo, sia anch’esso credente e praticante. Stavo rifacendo le stesse cose da capo. Mi son sentita una donna morta. Mi son spaventata moltissimo a vedermi così, mi son proprio vista dal di fuori, dal punto di vista degli occhi di Dio, e ho sentito che lo stavo tradendo di nuovo, che stavo tradendo pure la mia dignità ed il mio desiderio di felicità. Mi stavo di nuovo svendendo. Allora ho sentito questa forte chiamata a consegnargli tutto di me, a partire dalla cosa più difficile: la castità. Ho desiderato fortissimamente di tornar vergine come originariamente mi aveva fatta. E son rinata.
G. Quindi il passo di Ezechiele cadde come il cacio sui maccheroni. Anzi, i maccheroni vennero conditi col parmigiano di Ezechiele e col pecorino del Cantico (riletto dalla Hurnard). E ora? «Che cosa renderai al Signore / per quanto ti ha dato?».
M. Tutto! Tutto ciò che ho, la mia vita che manco questa è mia ma è lui che me l’ha data, ma insomma, non ho altro da dargli eh.
G. Insomma Qualcuno ce l’ha fatta, tra gli illusi che ti hanno corteggiata con proposte di matrimonio. Sembri la Donna cannone, che dice: «Butterò questo mio enorme cuore / tra le stelle un giorno». Ma come vuoi farlo?
M. Come voglio farlo? Non ne ho la più pallida idea! Aspetto che lui mi apra le strade, mi apparecchi le situazioni, perché ho fatto tanti tentativi – fallimentari – di entrar in conventi, monasteri ed istituti religiosi, sino a trovare un sacerdote gesuita che – con molta misericordia! – da tre anni mi fa fare i voti privati, sino al quinto quando, speriamo, farò la professione perpetua.
Tra le tante cose che ho letto e da cui ho attinto – tra cui la corrispondenza epistolare con p. Silvano Fausti, andato al Padre due anni fa – ho capito che la tua vocazione è sempre lì dove sei… e allora ho smesso di sbattermi per cercare dove o come consacrarmi. Certo però che, senza una comunità religiosa intorno, a momenti è durissima, eh… Stiamo a vede’ cosa mi riserva. Non voglio fare altro che la sua volontà, questo è il mio unico interesse (per poter diventare santa).
G. Ora ti faccio una domanda cattiva, che però sicuramente ti sarai fatta anche tu: sei sicura che questa idea nobile e bella non sia la maschera di una vigliaccata? Insomma, lo dicevamo l’altro ieri… della “mentalità da tossico” che spinge a schivare le responsabilità… “fuga mundi” suona meglio, si capisce, ma – se posso fare l’avvocato del diavolo – direi che la sostanza può sembrare simile.
M. Ah sì sì, è una vigliaccata-furbata di quelle mie, sì. Me lo dicon tutti ed io rispondo che han ragione, che ci han azzeccato in pieno perché è vero che non voglio assumermi nessuna responsabilità, perciò domando tutto a lui. Sono consapevolmente e volutamente dipendente da Lui. Io di mio non riesco a combinare niente di buono, ho abdicato completamente a me stessa e lascio che faccia tutto lui attraverso la mia carne. E non che così non fatichi lo stesso eh, però son più tranquilla di non sbagliare. Sì sì è vero: ho sostituito una dipendenza con un’altra. Non ci vedo nulla di male, anzi, per una volta forse son stata più scaltra degli altri («Pubblicani e prostitute vi precederanno nel Regno dei Cieli»). E non meniamocela che io ero o sono schiava e gli altri intorno no: siamo tutti schiavi, chi di una cosa e chi di un’altra, ma non ce ne rendiamo conto. Io ho scelto la dipendenza da Dio, voi sceglietevi le vostre. Pregare poi viene dal latino “precarium”: ecco se non fossi così precaria neanche pregherei. Ora invece chiedo tutto a mio Padre e lui mi dà tutto ciò di cui ho bisogno, mi vizia pure. Ho fatto un affare, altroché.
E sfatiamo anche il patetico luogo comune che le donne si facciano suore perché non gradiscono gli uomini o gli uomini si facciano preti perché son misogini: a me gli uomini son sempre piaciuti e conosco tanti sacerdoti a cui le donne piacciono assai!
G. Però Ligabue scrisse un distico che a me, istintivamente, è sempre suonato vero: «Sei tossico sempre di cose / che non sono tue». Vale anche per Dio? Eppure Dio ti si è consegnato. O ti dà una dose piccola per farti tornare a sé? Come funziona?
M. Dio ti dà inizialmente una grossa dose, chiamiamola pure un’overdose mistica, un’iniezione di Spirito Santo tale che tu viaggi «su ali di aquila» e superi con estrema facilità e dolcezza difficoltà enormi (rifiuto, persecuzioni, calunnie, fame, freddo, indigenze di vario tipo). Poi ad un certo punto ti taglia i viveri, ti toglie i dolcetti; ti fa crescere svezzandoti dal latte liquido (fatto di tante dolcezze e consolazioni sensibili) ad un cibo più solido (diceva qualche Dottore della Chiesa), il pane della Sua Parola.
G. Lo diceva san Paolo, ma ogni mistico ne ha sperimentato la verità, e i cartografi supremi delle regioni dello spirito fedele sono Giovanni della Croce e Teresa d’Avila.
M. Sì. E tutto questo avviene in maniera più o meno dolorosa e traumatica a seconda della persona. A me ha fatto proprio un intervento chirurgico a cuore aperto (cioè proprio letteralmente dal greco χειρούργος [chirúrgos], una mano mi è entrata nel petto e mi ha strappato via cuore e budella ). Ma con me, si sa, ci vogliono le maniere forti eh.
Da lì ti costringe ad andare a cercarlo per mari e monti, di notte tra le guardie della città e tra i perigli del mondo, perché ormai hai provato quel bacio, quel benedetto e santissimo bacio, solo quello agogni, e solo quello può quietarti, come la sposa del Cantico. È furbo pure Gesù eh, che te credi?
G. È per capire meglio le sue astuzie che ti sei data agli studî teologici? È una cosa che ha a che fare con la faccenda della consacrazione?
M. Beh certo, ma c’ho impiegato 20 anni per capirlo eh. Cinque anni fa, nell’estate del 2012, lessi per caso su Facebook quel post su Ezechiele 16, come ti dissi, e un giorno (ricorreva la festa di S. Elia) in autobus, schiacciata tra la gente, con la musica in cuffia, sentii nitidamente: «Non temere, io sono con te», e da lì partii per conventi e istituti religiosi, impazzita, lasciando tutto e tutti, e guadagnando il disappunto di tutto e tutti. Insomma, come per i discepoli di Emmaus il mio cervello improvvisamente si è scoperchiato alla conoscenza delle Scritture e da allora mi misi a leggere e studiare i Padri del deserto, tutti gli autori mistici, lectio, esegesi, ebraico, ecc.
Ma già il 14 maggio, sempre dello stesso anno, festa di S. Mattia, appena uscita dalla comunità, durante la Messa dai frati (miei angeli annunciatori) ho sentito con certezza che ero stata scelta (quello era il nome d’arte che mi davo quando dipingevo da piccola); io come Mattia, il dodicesimo apostolo tratto a sorte per sostituire Giuda, il discepolo amato che lo tradii ed andò ad impiccarsi, proprio come me che a 18 anni ebbi il primo incontro con Gesù e poi invece andai a tentare il suicidio. Tentativo fallito perché ora son qui a parlarti. «O felix culpa, quæ talem ac tantum meruit habere Redemptorem!» [Felice colpa, che meritò tale e così grande Redentore!].
G. Accidenti, pure il suicidio? Tu citi il preconio pasquale, ma visto che sei una “Maddalena” e che oggi è l’Ottava di Pasqua mi ricordi piuttosto la Sequenza: «Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello» – e proprio dentro di te! Vuoi raccontarmi qualcosa di più, quanto a quel giorno?
M. No, scusami: la cosa è più banale di quanto possa sembrare (in fondo è stata “solo” una boccetta di pasticche) ma è anche più dolorosa di quanto qui possa raccontare (potrei far soffrire alcune persone). Te ne ho parlato solo per spiegarti il mio attaccamento a Mattia: ero giovane, prima di tutta la storia che ho raccontato, quando per la prima volta ho incontrato Gesù. Pochi mesi dopo, però, lo tradii, dimentica del suo sguardo di misericordia. Io non sono solo Maddalena: sono Giuda fallito redento come Mattia.
G. Grazie, Marta, per questo racconto pasquale con cui coroniamo l’Ottava di Pasqua. Davvero ti ho sentita rispondere con le parole di Maddalena, perché tutte le mie domande potevano riassumersi in un “che cosa hai visto lungo la tua strada?”. E tu ci hai parlato della tomba del Cristo vivente, ci hai mostrato la gloria di chi stava risorgendo, ci hai raccontato degli angeli che ne davano testimonianza e ci hai indicato i segni di una Passione che permane. Ti guardo e replico, con la voce di tutta la Chiesa di Dio: «Sì, a sentirti ne sono certo: Cristo è veramente risorto».
M. Grazie a te, Giovanni. È stata un’esperienza davvero forte fare questo pezzo di strada insieme… il Signore ha benedetto il nostro incontro-scontro e ne ha fatto un capolavoro. Grazie!
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