«Che cos’è la storia di Marta?», mi chiedo con Victor Hugo, che apriva il suo undicesimo capitolo ponendosi questa medesima domanda circa la sua Fantine.
«È la società che compra una schiava», si rispondeva. E proseguiva:
E da chi la compra? Dalla miseria.
Dalla fame, dal freddo, dall’isolamento, dall’abbandono, dalla nudità. Un doloroso mercato. Un’anima per un tozzo di pane. La miseria offre, la società accetta.
La santa legge di Gesù Cristo governa la nostra civiltà, ma non la penetra ancora. Si dice che la schiavitù è scomparsa dalla civiltà europea. È un errore. Esiste sempre, ma non pesa più che sulla donna e si chiama prostituzione.
Pesa sulla donna, vale a dire sulla grazia, sulla debolezza, sulla bellezza, sulla maternità. Un’infamia dell’uomo che non si conta tra le sue minori.
Fortuna che ci sono i Miserabili, o la letteratura non sarebbe che un esercizio estetico per nobili annoiati: Hugo non era un baciapile, e anzi negli anni ’60 dell’Ottocento crescevano i suoi sentimenti anticattolici, ma la dolente sensibilità con cui guardava al dramma degli innumerevoli destini travolti dalla storia scavalca d’un balzo le spavalderie da happy few di Balzac e Maupassant, di cui dicevamo ieri. Seneca possedeva schiavi, ma li guardava e si chiedeva: «Perché non sono nato schiavo anche io?». Paolo accoglieva lo schiavo fuggitivo di un amico e glie lo rimandava indietro con un biglietto, nel quale lo pregava di essere indulgente e lo apostrofava ricordandogli che anche lui era diventato “schiavo di Dio” in cambio della libertà filiale ricevuta nella fede cristiana. Così pure Agostino e tutti gli altri che in qualunque modo hanno gettato uno sguardo inquieto e indagatore sulle esistenze altrui si sono interrogati sulle responsabilità comuni dei mali individuali, e viceversa sulle responsabilità individuali dei mali comuni.
Perché se Marta si è prostituita c’è senz’altro una colpa che ricade su di lei – quella che Hugo chiama in generale “miseria” – e ce n’è un’altra che si suddivide in-equamente tra il consorzio umano tutto e per ciascun suo membro si moltiplica – ecco la responsabilità morale della “società”.
Che si definisca la prostituzione “il mestiere più antico del mondo” non fa della prostituzione un mestiere – perché il lavoro produce beni, merci e/o servizi che favoriscono il tessuto sociale, mentre niente di questo si deve al meretricio – ma ne rende tutto il mondo e tutta la storia ugualmente correi.
Così nelle risposte di Marta alle mie domande ho intravisto le miserie di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e mi sono commosso tanto di più a considerare quanto più tenace dell’inclinazione al male è nell’uomo l’aspirazione al bene.
Di seguito la nostra conversazione.
G. Ieri mi dicevi che c’era una giovane “collega”, l’unica, con cui lungo i mesi passati in strada ti sei potuta confrontare. Aggiungevi anche che è morta un mese fa. Mi racconti qualcosa di lei?
M. Grazie che mi dai la possibilità di ricordarla, perché era una dei tanti “invisibili” di questa società, e son felice di poterle dare voce. Si chiamava Susy. Susy era molto più giovane di me, oggi avrebbe intorno ai 30 anni, aveva i capelli lunghi, rossi, era minuta e traspariva in lei una bellezza rovinata dalla vita randagia. Non abbiamo mai trascorso serate insieme: la conobbi un pomeriggio e la ritrovai tre anni dopo in comunità. Eppure mi sentii profondamente legata a lei e anche io – lo scoprii anni dopo in comunità – l’avevo colpita. Ci accomunava un profondo sentimento di “orfanezza”… eppure mi sentii subito spinta anche maternamente nei suoi confronti. Ero pronta ad ospitarla a casa dopo aver ascoltato la sua storia e condiviso le sue lacrime, ma, per fortuna, diede di matto e mi lasciò sotto la pioggia nei parcheggi dei palazzi dove mi ero recata a comprare la mia prima dose (perché prima era il mio ragazzo a portarmi tutto in casa). Susy era una ragazza ribelle e molto intelligente. Oramai però aveva superato quella soglia oltre la quale non riesci più a tornare indietro, come accade a tante ragazze che iniziano da presto. Lei è stata il mio mentore, in qualche modo. Il suo dolore e la sua “libertà” mi catturarono e affascinarono al punto che volli emularla e la interrogai sul come potessi io stessa fare quella vita. Ho messo in atto un diabolico e lucidissimo piano di autodistruzione, non sedute a tavolino, ma su di un muretto dei palazzoni di periferia. Mangiava sempre, eppure era magrissima. Avevo paura ad incrociarla perché le avevo “rubato” un cliente che prima portava a lei del cibo ed ora lo portava a me. Quindi temevo i suoi raptus violenti. Me ne tenevo a distanza. Ma conservavo un grande dispiacere per lei (che ipocrita!).
La ritrovai tre anni dopo, quando io ormai terminavo la comunità ed ero una persona “di periodo”, di riferimento per i nuovi arrivati. Non mi riconobbe subito e, quando accadde, ne rimase molto stupita: a detta sua e di tutti, operatori compresi, le mie fattezze si erano proprio modificate. Si attaccò molto a me, sembrava sinceramente motivata a seguire il mio esempio, mi trovava bene, trasformata, un’altra persona… ma non ce la fece. Come per tanti della comunità, il richiamo alla vita randagia era troppo forte e scappò più volte. Con mio grandissimo dispiacere. Piansi davvero tanto sia quando scappò lei sia quando fecero lo stesso tutte le donne che conobbi in comunità. Un pezzetto di me, mi sembrava, falliva ad ogni loro fuga ed invece tutti quegli strappi, compresi poi, furono indispensabili perché io facessi la mia scelta: vivere o morire. Tradire chi mi aveva allungato la mano per aiutarmi o approfittare del loro affetto per scegliere la vita. Del resto non era questo che cercavo? cercavo la considerazione di qualcuno e lì, in comunità, trovai finalmente una famiglia.
G. Ecco, non ti sembri strano detto da uno che non ha mai fumato neanche una sigaretta (è che tendo a non coltivare vizi visibili agli altri…), ma anche io ho visitato una comunità. Era quella di don Gelmini, ad Amelia. Ho conosciuto lì uno spaccato di umanità che mai avrei creduto: una delle persone più fantastiche che io conosca l’ho conosciuta lì dentro mentre raccoglieva le forze per il colpo di reni che l’ha portata fuori dal baratro dell’eroina. Un ragazzo campano che oggi ha aperto una pizzeria di grande successo in una città del Nord, si è sposato e ha avuto dei bellissimi bambini. Per me la droga era una terribile leggenda, ma non l’avevo mai incrociata veramente sulla mia strada: lì ho toccato con mano quanto possa devastare le persone, e la cosa che più mi ha tormentato, nel periodo che ho passato in quella comunità, era che alcuni – pur nella fatica e nello sforzo quotidiani – erano visibilmente in possesso delle forze necessarie per riuscire. Altri no. Mi sono sempre detto che il perché di questa differenza, in cui ravviso anche tremende assonanze teologiche, deve essere ricercato nelle singole storie… ma riconosco che questa non è una risposta. Secondo te c’è una risposta?
M. Grazie anche per questa fondamentale domanda. Ci ho riflettuto moltissimo (dopo), ho pensato a lungo a quale potesse essere lo “scarto” tra me e gli altri compagni (perché da me c’è una percentuale elevatissima di ricadute e di morti). Per diverso tempo ho creduto che fosse l’intervento straordinario di una grazia ad avermi salvato, e lo è senz’altro stato (gli operatori stessi, atei, inneggiavano al miracolo). Poi ho iniziato a chiedermi perché alcuni potessero “meritare” questo intervento della grazia ed altri no ed oggi, riprendendo gli studi, ho capito che c’è una “opzione”, come la chiama Giussani, una opzione da fare che interpella la nostra libertà, quand’anche tu sia il più inetto e ottuso tra gli uomini. Anche la grazia ha bisogno di un punto di accesso, una piccola qualsiasi fenditura in cui poter entrare. È un guizzo di lucidità che a tutti è dato di avere, un istante in cui fa capolino nella tua coscienza una scelta da fare, un sì che può anche essere follia lucida di un istante… ma che per un attimo ti fa credere che sia possibile un’altra vita. Questo momento di illuminazione non te lo scordi più per tutta la vita!
G. È un’esperienza che ho fatto anch’io, sì, e per quel che ho potuto pensare guardandomi intorno ho maturato l’idea che veramente quell’occasione si dia almeno una volta in ogni vita. Può forse sembrare un trucchetto di teodicea da quattro soldi, ma fino a oggi ogni “graziato” che mi ha raccontato la sua storia ha fatto cenno a quel momento fondamentale, mentre ogni “disgraziato” di cui io abbia potuto raccogliere il lamento si doleva di aver sciupato certe non meglio precisate occasioni. Ma a proposito di situazioni della vita, accennavi ieri al fatto che fosti mandata via di casa minorenne. Che cosa è accaduto?
M. Avevo 17 anni, mi mancava un anno a terminare il liceo. Adoravo andare a scuola, leggere, scrivere, dipingere, suonare, relazionarmi a compagni e professori. Ero una ragazza vulcanica, con un’intelligenza vivacissima. I compagni di scuola, ritrovati pochi mesi fa, mi raccontano che a 15 anni mentre loro leggevano cose come “La storia infinita” io leggevo “Delitto e castigo”. In casa spesso ero costretta a nascondermi in bagno, in terra tra il bidet e il wc, per poter leggere o scrivere, oppure in garage. Mio padre non voleva che studiassi e mi proibì di andare a scuola, io disobbedii e ci andai lo stesso: al rientro, alle 20 di sera, trovai sull’uscio un piccolo zaino con pochi miei indumenti e mia sorella che, poco più grande di me e per ordine dei miei, a testa bassa, mi indicava di prenderlo e andarmene. Chissà quanto è stato straziante per lei! Comunque lì per lì ne fui sollevata perché in casa vivevo nel terrore delle violenze fisiche e psicologiche di mio padre. Col tempo però questo dolore mi scavò dentro al punto da farmi implodere. Appunto, dopo i 30 anni.
G. Tuo padre… in effetti in altri momenti mi hai parlato sempre e solo di tua madre. Chi era tuo padre? E che rapporto c’era tra lui e tua madre? Sempre se ti va di parlarne…
M. No, non mi va di parlarne, per rispetto di loro e del loro dolore. Sto comunque lentamente recuperando alcuni dei rapporti di parentela; gli altri, se non vogliono, è perché stanno ancora male. Io comunque li amo profondamente, credo di esser riuscita a perdonarli e attendo con speranza e fiducia che tornino a “casa” come ho fatto io.
G. Comprensibilissimo. Ammetterai però che un genitore che proibisce a una figlia di leggere e di studiare suona perlomeno “strano”… e uno che si esponga ai rigori della legge mandando via di casa una figlia minorenne suona quasi inverosimile. Se non fossi tu a raccontarmelo, ti confesso che forse non ci crederei. All’epoca non ti è venuto in mente di denunciare tuo padre? E che facesti, quella sera e nei mesi successivi?
M. Ci son abituata, tutti stentano a crederci ed anzi vien loro spontaneo pensare che sia stata io a “combinare qualcosa”. No, non ho combinato nulla, se non andare a scuola e tornare con la certezza che qualcosa di catastrofico sarebbe successo (minacciava da anni di mandarmi via).
Non pensai a denunciarlo non solo perché ero totalmente sprovveduta in queste cose, ma anche perché ero in quell’età in cui ancora credi a tuo padre, in cui ancora tuo padre è il tuo mito, anche se è un mostro, quindi sei incapace anche di pensare lontanamente di denunciarlo.
Andai la notte stessa da mia nonna che spesso mi ospitava sin da bambina e qualche giorno dopo mi chiamò la mamma di una mia compagna di classe che io conoscevo perché andavo a casa sua a studiare. Mi propose di ospitarmi con tutti gli altri suoi ospiti ed il suo compagno per un anno. Era una comunità di persone che praticavano yoga, Shatzu e cose cosi. Dopo un anno iniziai a cambiar continuamente case, anche tre all’anno, in convivenza con studenti e lavoratori.
G. Accidenti, e dove si è formato quel “gran senso del pudore” di cui mi dicevi ieri? Accennavi pure a “una coscienza che ti parlava assai”. Da dove saltavano fuori l’uno e l’altra?
M. Davvero non lo so. Ancora oggi rimango stupita: da qualche parte ho attinto a un’educazione, valori, comportamenti… forse più dai nonni che dai genitori. Già da bambina mi si diceva che ero una bambina molto responsabile e attenta, forse ho messo in atto il meccanismo (mortale) di fare da genitore ai miei genitori al punto da fare il “grillo parlante” con loro e coi parenti! Insomma, presto son diventata scomoda.
G. E che mi dici della doppiezza? Non sei mai stata doppia, prima di scivolare nell’abisso?
M. La doppiezza, sì: una cosa molto sottile e difficile da smascherare. In fondo io ero considerata una ragazza di successo e, negli ambienti religiosi, mi si dava pure della “santa”. Credo che la mia doppiezza stesse nel fatto che convivevo coi miei fidanzati e avevo con loro rapporti sessuali e fumavo pure gli spinelli. In sé questo non sembrerebbe tanto grave agli occhi dei più, è infatti una cosa assai comune. Ma per me era grave perché non mi dava autenticità: ero piena di dipendenze fisiche e psicologiche. Avevo voglia di fare tanto la bohemienne libera da tutto e da tutti: in realtà ero una poveraccia che non riusciva a dire il suo sì (ma neanche il no!) e che rimaneva dipendente dalla considerazione degli altri. E questi altri purtroppo erano sempre di ambienti moralmente corrotti e viziati e dai quali, lentamente, mi son lasciata trascinare.
Diciamo che anziché dare ascolto a quella domanda prepotente di senso che mi stava divorando, ho scelto di mettere a tacere la coscienza, di soffocarla con ripetute scelte improntate alla menzogna piuttosto che alla verità. Più che agli altri, insomma (o almeno prima), ho mentito a me stessa. E questo è stato devastante.
G. Quando è arrivata la droga? Come? Di quali droghe parliamo?
M. È arrivata intorno ai 30 anni. Anche per me la droga era una leggenda sconosciuta, un luogo comune addirittura. Mi fidanzai con un ragazzo benestante che ne faceva uso di nascosto: gli chiesi di non nascondersi e di farlo insieme. E così fece. Iniziai con l’eroina, poi il metadone per “liberarti” dall’eroina (la droga statalizzata più devastante che abbia mai conosciuto, il metadone) e poi mi portò la cocaina quando ad un certo punto caddi in depressione tanto da non muovermi più dal letto: mangiavo solo torte alla meringa e ingrassai una ventina di chili. Riuscii a reagire ma da lì a poco lui mi lasciò. Iniziai ad assumere anche psicofarmaci, in tutto ciò. Credo di poter dire con certezza che metadone e psicofarmaci sian nettamente superiori in pericolosità alle droghe che ho provato. Infatti non ho avuto nessuna difficoltà a lasciar le droghe, ma scalare metadone e psicofarmaci è stata la cosa più devastante della mia vita, sia fisicamente, che mentalmente, che spiritualmente.
G. Immagino che nel “recupero” del rapporto con la tua famiglia, cui accennavi prima, queste grandi aree – quelle della doppiezza e della droga – siano state una parte importante, se non altro perché penso che abbiano suscitato domande sui rapporti pregressi. Ci si chiede sempre «Cosa ho sbagliato?», «quale segnale non ho colto?»: anche per voi sono stati capitoli particolari su cui occorreva riconciliarsi?
M. Ma no, non c’è niente da recuperare. Siamo stati estranei per quasi 20 anni, che devi spiega’? Genitori anaffettivi, irresponsabili, feriti anche loro. Che stai a discutere? Non ci riescono. Preferiscono non sapere o fingere di non sapere ancora. Troppo grosso il loro errore e troppo grosso il mio. Oggi semplicemente ho sviluppato un altro rapporto, vista la loro difficoltà a prendere coscienza di ciò che è stato. Ridiamo, scherziamo, andiamo al cinema e piano piano cerchiamo di ridarci quell’affetto che non ci siam dati prima.
G. E dopo tutta questa storia, ti sentiresti di dire qualcosa alla te di allora… o a una ragazza che oggi fosse in una situazione analoga, presa tra i suoi sogni, genitori deficitari e l’abisso dell’autodistruzione?
M. Così mi fai commuovere. Alla me di allora, e quindi agli adolescenti che potrebbero vivere una situazione analoga, mi verrebbe da dire che sono amati – anche se non dai loro genitori, sono amati – sono infinitamente preziosi agli occhi di Dio. A questi ragazzi vorrei dire – e già lo dico a tutti quelli che incontro – di non svendersi mai, sopratutto alla massa e al conformismo, alla considerazione altrui a tutti i costi. Vorrei dire di non farsi delle maschere per piacere o essere accettati in un gruppo. Vorrei pregarli di non credere mai a quella voce che ti dice: «Non ce la farai!», perché, comunque vada, tu sei un capolavoro. Vorrei dire di ascoltare sempre i loro desideri di giustizia e di bene, di non permettere mai a nessuno di spegnerglieli. Arrabbiatevi se necessario, ma non fatevi spegnere, mai! Ci sarà tempo per dormire!
G. Grazie, Marta… Mi dicevi ieri che senza le sostanze non saresti mai arrivata a s-venderti; oggi abbiamo parlato tanto di droga, e abbiamo cominciato ricordando la tua “collega-rivale-amica”, che hai conosciuto sul marciapiede e ritrovato in comunità… prima di perderla, poche settimane fa. Quanto è diffusa la droga nel mondo della prostituzione (a quanto ne sai tu, chiaramente)?
M. La verità? A me sembra ben poco. Ricordo che era netta la differenza tra prostitute che si drogavano e quelle che non si drogavano. Le straniere non si drogavano: lo facevano soltanto le italiane, che per questo erano additate e, in qualche modo, snobbate perché potenziali portatrici di malattie.
G. Da quel breve periodo che passai in comunità, ricordo che si parlava spesso della “mentalità da tossico”, intendendo con ciò quella forma mentis che ti scoraggia sempre dall’assumerti la benché minima responsabilità riguardo ai tuoi mali. Si diceva anche dove sei stata tu?
M. Ah sì sì! quella non si scorda mai! la forma mentis del tossico ti rimane per sempre! Io per esempio ricordo botte di disperazione totale se mi si diceva di passare dal settore lavanderia a quello della cucina. E a tutt’oggi mi rendo conto che faccio sempre resistenza ad assumermi responsabilità che mi si danno. La prima reazione è sempre quella di rifiutare, e non certo per umiltà! Poi ancora tengo il mio cassetto “tossico”, cioè un luogo dove butto le paccottiglie che non mi assumo la responsabilità di filtrare ed eliminare. Lì in comunità ti insegnavano a fare la G.I. (General Inspection) dei cassetti, degli armadi, delle dispense, di tutto insomma come disciplina e metafora di pulizia delle tue zone sporche e nascoste. Poi esci fuori e in breve tempo devi smontare tutta ’st’impalcatura, se no passi il tempo a rimproverare le persone tra chi lascia un detersivo fuori posto e chi attraversa un prato “senza permesso”! La mia comunità seguiva il programma americano Progetto Uomo, creato per i soldati reduci del Vietnam a cui, appunto, facevano usare l’eroina per esser “eroici”, per dar loro “coraggio” nel poter affrontare le aberrazioni della guerra… Mah, insomma… non è che funzioni molto eh! anche perché qui dove sto io manca assolutamente un piano di reinserimento e, se non hai famiglia in cui tornare, sei già ricaduto. Per questo ti dico che io mi sento graziata.
G. Questo merita che ne parliamo un’altra volta. Ma un’ultima domanda permettimela, visto che mi hai sfatato un luogo comune che avevo assimilato – cioè quello della simbiosi tra droga e prostituzione – e che mi hai così duramente colpito con l’affermazione della permanenza della “mentalità da tossico”: esiste anche una “mentalità da prostituta”?
M. Sono qui per picconare le tue certezze! Mentalità da prostituta… non saprei, anzi, direi di sì. Ma non necessariamente per strada. Io vedo la mentalità da prostituta nei miei colleghi di lavoro o anche in facoltà, spesso lo scopro anche in me e cerco di non assecondarla. Spesso nel mondo del lavoro ti si chiede di scendere a compromessi o di mercificare la tua o altrui dignità. È difficilissimo smascherare questo meccanismo e disinnescarlo intorno a te. Io oggi pago ancora per questa libertà/ autenticità acquisita. Raramente le persone, sia nelle convivenze che nelle dinamiche di parrocchia, ma sopratutto negli ambienti di lavoro, gradiscono la sincerità, la verità, la lealtà. O meglio: all’inizio tutti ti osannano perché riconoscono in te l’homo novus che può portare novità, ma quando comprendono che ti puoi sottrarre allo stritolamento del sistema, presto diventi scomodo e detestabile. E così sei costretto a cambiar casa e lavoro anche più volte all’anno! Insomma, rimani uno sradicato a vita.
Al punto di questo doloroso dramma in cui siamo arrivati, non resta più niente – a Fantine [ma anche a Marta, N. d. T. ] di ciò che era stata prima. Si è trasformata in marmo trasformandosi prima in fango. Chi la tocca ha freddo. Passa, vi sbatte e vi ignora, con la sua figura disonorata e severa. La vita e l’ordine sociale hanno detto su di lei la loro ultima parola. Le è già capitato tutto ciò che le capiterà. Ha sentito tutto, tutto ha sopportato, tutto ha provato, tutto ha sofferto, tutto ha perduto, tutto ha pianto. È rassegnata di quella rassegnazione che assomiglia all’indifferenza come la morte assomiglia al sonno. Non evita più alcunché. Niente più le dà timore. Tutti i nembi cadono su di lei e tutto l’oceano le passa addosso… che le importa? È una spugna imbevuta.
O così crede, almeno, ma ci si sbaglia a immaginarsi che si possa evacuare la sorte, e che si tocchi il fondo di checchessia.
Ahi… che ne è di tutti questi destini scaraventati insieme alla rinfusa? Dove vanno? Perché sono così?
Questo lo sa chi vede a fondo nell’ombra.
Egli è unico. Si chiama Dio.
E – come scrisse Agostino dell’adultera –
http://www.augustinus.it/italiano/commento_vsg/omelia_033.htm#GV_033_005_005