Qualche tempo fa ho dato un passaggio a una donna che faceva l’autostop. Stavo mangiando una pizza mentre mi recavo a una riunione e quindi, siccome il sedile del passeggero era occupato dal cartone onde pescavo i fumanti pezzi della mia cena, l’ho fatta accomodare dietro, come una signora. Anzi, come chauffeur ero molto poco signorile, nel mio sgranocchiare trancî di pizza quasi fossero noccioline, e non solo perché ero costretto a parlare alla mia passeggera con la bocca piena, ma pure perché la stessa non ha accettato di condividere con me la mia cena. «Beh, però io glie l’ho offerta, la pizza…», pensavo tra me e me mentre ascoltavo le sue risposte alle mie domande da CCC (conversazione cordiale di circostanza).
Immaginatevi la mia faccia quando, alla tranquilla e genericissima domanda “e tu che fai di bello?” mi son sentito rispondere un altrettanto serafico: «Bah, faccio la strada, come tutte le altre…». A momenti mi strozzavo, e per non risultare scortese nel guardare meglio nello specchietto (né trucco pronunciato né abbigliamento non pronunciato avevano potuto mettermi in guardia: era in tutto una donna perfettamente ordinaria) le rimandai appena un tenue: «P-prego…?». «La strada – mi rispose, e poi si spiegò for dummies –: la batto, come tutte quelle che vedi lì». Era la seconda volta che parlavo con una prostituta (la prima era stata anni prima, su quella stessa strada, quando di sera un temporale mi costrinse a ripararmi con la moto sotto la tettoia di una pompa di benzina – c’erano altre quattro o cinque passerotte, più asciutte di me ma non per questo meno tremanti). Due esperienze che mi avevano instillato il dubbio che quelle figure che sembrano aspettare Godot e invece non aspettano niente (…o forse è il contrario?) non siano dei meri sagomati.
Più recentemente, in tutt’altre circostanze e in tutt’altri non-luoghi, sono entrato in contatto con Marta (nome di fantasia), che per un breve ma segnante periodo della sua vita si è prostituita, ho avuto una divergenza di opinioni con lei e questo ci ha portati a fare una lunga e interessante chiacchierata. La prima cosa che ho scoperto è che alle prostitute non piace essere chiamate “puttane”, anche se (a quanto credevo) doveva essere l’appellativo con cui si definiscono più di frequente: un po’ come quando senti due rapper che si chiamano “negro” – non puoi permetterti di rivolgerti a loro con quello stesso epiteto (nemmeno se sai a memoria Pulp Fiction). Spero che la cosa non suoni irriguardosa a qualcuno: è celebre il rimprovero di Honoré de Balzac a Guy de Maupassant – che cioè il giovane perdeva tempo in «troppo canottaggio e troppe puttane» – ove la parola “puttane” non sembrava di per sé più sconveniente di “canottaggio”. Quanto al giovane autore di Bel Ami, fu pure quello che consigliava ai giornalisti di essere “un po’ come le puttane”, e questo proprio per non ridursi a meri “nientologi” (quest’ultimo conio, “rienologues”, è del summenzionato Balzac – e confesso di restare spesso interpellato dalla raccomandazione).
Bando alle celie, insomma, e senza scomodare la “Pute au grand cœur” di Pierre Perret (la quale, lo ricordiamo, «sarebbe stata una buona suora»), annoto che è strana quest’accezione peggiorativa di una parola di per sé così graziosa. “Troia”, sì, è parola dispregiativa perché bestiale (come vacca, cagna, scrofa ecc…); “mignotta” sintetizza il dramma sociale di essere madre ignota di figli ignoti, ed è uno strazio; ma anche il più asettico “prostituta” indica etimologicamente la turpe azione del vendersi… Al contrario l’occitanico “putana”, dal portato latino (che non è quello di “puteus”, come qualcuno dice, ma quello di “puttus”), significa né più né meno che “ragazza”. Un giardiniere preferirà forse essere chiamato “operatore ecologico”, se tiene ai nominalismi di moda oggidì, ma non si sentirà offeso al sentirsi chiamare “giardiniere”, e anzi sosterà volentieri a contemplare che luoghi fantastici siano i giardini, dal cui nome deriva quello del suo mestiere. Non così le donne che si vendono, malgrado alcuni papponi della politica sostengano che niente possa nobilitarle come una partita Iva e la tassazione da “libere professioniste”. C’è di che riflettere.
Riporto di seguito la prima parte della nostra conversazione.
G. Scusa, Marta, perché ti ferisce la parola “puttana”? Non hai scelto liberamente di farlo?
M. No, non l’ho scelto liberamente: ero in delirio di onnipotenza. Lascia che sia una puttana a chiamarsi puttana.
G. Questa è una cosa interessante: sembri mettere in contrapposizione la tua libertà, che dici non esserci stata, con il delirio di onnipotenza, che invece dici averti “costretta”. Mi par di capire che non avevi neanche bisogno di soldi. Che vuol dire?
M. Quando fai uso di sostanze hai per forza bisogno di soldi, ma nella mia schiavitù interiore (perché le sostanze, il sesso compulsivo e tutte le forme di dipendenza sono solo una delle tante catene con cui si manifesta la tua prigionia), io ho creduto di affermare la mia libertà in un gesto volutamente provocatorio, un estremo moto di rabbia e di disperazione.
Quando son scesa in strada ricordo perfettamente che urlai (dentro di me ): «Se ci sei vienimi a prendere!»: ho sfidato Dio insomma, come Giacobbe sul fiume Jabbok.
G. Aspetta, così però ci perdiamo qualche pezzo: mi dài delle coordinate? Quand’è che ti sei prostituita? Come ti è venuta l’idea? Dove ti sei messa a “esercitare”?
M. Avevo 35 anni. Iniziai in casa e poi, non sazia, mi spinsi in strada, caparbiamente intenzionata ad auto-distruggermi.
Ero stata lasciata dal mio fidanzato tossico: per me, superbamente convinta di avere gli uomini ai miei piedi e sofferente di crisi di abbandono perché mandata via di casa ancora minorenne, era una cosa inaccettabile. È stato l’ultimo contraccolpo dell’abisso di angoscia che mi si era spalancato. E, strano a dirsi, ma la mia rabbia era rivolta sopratutto a Dio, perché se tutti mi abbandonavano, se nessuno mi voleva bene, io ne avevo chiesto conto direttamente a Lui! Ho preteso che fosse lui a salvarmi, dato che né io né nessuno ci riusciva. Sembrerà quasi una bestemmia, ma è stata la mia storia di grazia.
G. In un’intensa canzone di diversi anni fa, Marco Masini chiedeva alla sua bella stronza:
E ogni volta che ti spogli
non lo senti il freddo dentro?
Quando lui ti paga i conti
non lo senti l’imbarazzo nel silenzio?
Com’è stata la prima volta che sei stata pagata? Che hai provato, che hai pensato a ricevere quel denaro? Sempre se la cosa ti ha lasciato un’emozione o delle riflessioni particolari, si capisce…
M. Sì, certo che lo sentivo… il freddo dentro e l’imbarazzo. Avevo un gran senso di pudore, io, e pure una coscienza che mi parlava assai. Son sempre stata una ragazza molto seria: lavoro nel sociale, università, chiesa, frequentazione dei Sacramenti, ecc. Ma ero doppia: ero severissima e “moralista” con gli altri e con me stessa. Troppo, evidentemente. Perché a lungo andare, vedendo che seguendo la “moralità” e la responsabilità venivo continuamente tradita e disattesa da tutti, colleghi di lavoro, di facoltà, fidanzati, amici, parenti, pure sacerdoti, ho deciso esplicitamente un’inversione di rotta. Certo non so se senza l’abbaglio delle sostanze avrei potuto mai decidere e fare una cosa del genere.
G. Scusa se insisto su questo punto, ma mi interessa molto: come si è esplicitata la formulazione della decisione, fuori di te? Quella prima volta che ti vendevi, come hai trovato le parole? Come hai fatto intendere che ti saresti data per soldi? E a chi? Si è presentato lui come “cliente” o sei stata tu a dirgli che volevi soldi? Quanti ne hai chiesti?
M. Ne ho un ricordo molto confuso eh, mia sorella ancora mi dice: «Tu non ti ricordi niente!». Ciò che ricordo è che non ho iniziato per soldi. Facevo un cocktail di psicofarmaci, droghe e alcol, mi preparavo e andavo nei locali notturni. Lì è chiaro che una ragazza da sola (peraltro ero ancora bella!) di notte in un locale rimorchia sicuro. Oppure accettavo passaggi da sconosciuti. Tutte cose mai fatte in vita mia. Queste persone le portavo a casa. Chiaramente loro venivano per fare sesso, io in qualche modo ancora cercavo affetto. Non dicevo mai nulla, non c’era niente da dire, basta la “presenza”. Con l’andar del tempo ho deciso di chiedere soldi, dopo che effettivamente qualcuno ha iniziato a darmene senza che io ne chiedessi. Bizzarro.
G. Pretty Woman ci ha abituati all’idea romantica della “buona prostituta”, che «fa tutto, tranne baciare in bocca». Per la tua esperienza e per quella delle donne che hai conosciuto sulla strada, esiste veramente una simile deontologia professionale? O qualcosa del genere?
M. Non vorrei romanzare su una cosa tanto dolorosa, ma sì, io mi sentivo quasi un’infermiera! In qualche modo reiteravo il comportamento che tenevo nel lavoro sociale che facevo prima. E questa cosa del “bacio” è una cosa che ho saputo soltanto molti anni dopo quella parentesi di sei mesi. Io non baciavo gli “amanti”, ma non ho mai baciato neanche i fidanzati. Non so perché.
La deontologia professionale c’era senz’altro, ma io non la conoscevo, ero completamente estranea a quell’ambiente. Solo con una ragazza giovanissima potei confrontarmi (è morta un mese fa): tra donne della strada c’è competizione e molta violenza. Io ne avevo molta paura. Eran gli uomini stessi a spiegarmi e indicarmi le cose. Io credo sia stato un altro miracolo grande che non abbia contratto alcuna malattia.
G. Ma pensa! Cioè… a sentirti non mi sembra irragionevole, anzi… però chissà perché mi ero fatto un’idea un po’ diversa. Cioè, pensavo che i “nemici” fossero i “protettori”, mentre che tra le donne si creasse una sorta di solidarietà. Saranno state alcune scene dei film di Verdone, oppure il fatto che talvolta sulle consolari romane vedo le ragazze che parlano tra di loro… insomma, mi sembrava che si facessero compagnia. Invece tu mi mostri un panorama di competizione e di violenza…
M. Io ero l’unica italiana spesso. C’è solidarietà tra connazionali, le altre vengono menate! così almeno è stata la mia esperienza. I “protettori” ti proteggono dagli avventori, non da se stessi. Infatti è solo perché ripetutamente pestata e minacciata di morte da uno di questi che accettai di entrare in una comunità. Per il resto gli uomini che vanno a prostitute perlopiù son persone sole, che delle volte neanche vogliono sesso, ma solo compagnia e affetto. Molti di loro mi hanno anche chiesto di sposarli!
G. Ecco, appunto, volevo chiederti una panoramica sui “puttanieri”. Ammetto che tante volte, per strada, ho lanciato dure invettive contro le auto che vedevo parcheggiate al ciglio della strada. Soprattutto se me le trovavo all’improvviso dopo curve coperte, o se si trattava di camionisti (visto che i camion sono più grandi delle auto, non per altro), ma fondamentalmente perché tendo a vederli come gli artefici della schiavitù di quelle donne. Invece dimmi: che tipo di umanità è quella?
M. Mah, è certo una umanità malata, molto sofferente. Il 99% di loro avevano disfunzioni sessuali, impotenze, paranoie, grande solitudine e incapacità totale a relazionarsi con gli altri, donne sopratutto.
G. Sopra avevi detto che i papponi «ti proteggono dagli avventori»: vuoi dire che alle volte i clienti sono violenti? Questo confligge un po’ col dettaglio melodrammatico della proposta di matrimonio, mi pare. O le cose stanno insieme?
M. Sì, delle volte stanno insieme. Delle volte la stessa persona dice di amarti ma poi ti vuole possedere e, se cerchi di sfuggire, mette in atto meccanismi di violenza inaudita, non solo fisica ma anche psicologica.
G. Se qualcuno di loro ti stesse leggendo, oggi, su questa pagina, cosa vorresti dirgli?
M. Vorrei chiedere loro scusa per non averli saputi aiutare come forse avevano bisogno.
G. Alle volte si dice che gran parte dei clienti delle prostitute sono mariti e padri di famiglia. Tu parli di solitudine. Anche qui: c’è contraddizione o le cose vanno insieme?
M. Io non so se mi mentivano, ma la maggior parte di loro non eran sposati, né riuscivano a stare con una donna. Quelli sposati, appena sapevo, li rifiutavo.
G. Come mai?
M. Mi davano fastidio, odio la doppiezza.
G. Mi sembra di sentire i tipici discorsi da crocerossina di certe donne: vi fareste in quattro per salvare un disgraziato, ma se non è un disgraziato non ne volete sapere. In fondo anche tu eri doppia. O no?
M. Davvero! oggi che l’ho capito son passata al limite opposto e aborro gli uomini disgraziati! o almeno quelli che ci si crogiolano.
Sì, anche io ero doppia, doppissima. Si sa che si odia ciò che ti assomiglia!
G. Appunto: che facevi nella vita diurna, poi? Chi incontravi? Che contegno tenevi? Come guardavi la gente?
M. Io non mi vedevo dall’esterno ma mio cugino proprio qualche giorno fa mi ha detto che esternamente sembravo la stessa persona di sempre, lucida, intelligente, perfettamente (apparentemente) padrona delle mie azioni e parole. Ma io ricordo bene la vergogna che provavo ad incontrare le persone del palazzo in ascensore o nel portone.
G. Ecco, la vergogna… In Il signor parroco dà di matto, di Jean Mercier (in uscita in italiano a giugno per San Paolo) si leggono in un passaggio le parole di un’altra ex prostituta:
Oh, se lei sapesse, signora. Io ero perduta… Grazie al parroco, ho compreso che la cosa più grave non era ciò che avevo fatto della mia vita – cosa certamente non bella… – ma il restare nella vergogna. La vergogna è come il grasso, che cola dai cibi e s’incrosta sui fornelli della cucina. Quando uno comincia a provare a pulire, diventa anche peggio: fa come una specie di chewing gum marrone che si estende spaventosamente, che si incrosta sulla spugna e che poi comunque non se ne va, neppure con l’acqua calda… E alla fine, ecco, il Signore in un colpo solo mi ha liberata da questo grasso incrostato. Voglio dire, dalla vergogna di essere schiacciata dal mio passato, cosa ben peggiore del mio passato. […] Per circa trent’anni sono stata una puttana, una prostituta, se preferisce. Esercitavo a Parigi, nei dintorni del Temple. Non le descriverò quella vita: è troppo sordida. In seguito, sono venuta in provincia per dimenticare tutto questo. Dimenticare tutto questo e la mia frustrazione di non aver avuto una vita più bella. Non ero stupida, sa: avrei potuto fare degli studi, sposarmi, concludere qualcosa di utile, qualcosa che avesse un senso. L’altra sera sono andata a trovare il parroco. […] Gli ho raccontato tutto, mi ha detto che Gesù mi perdonava ogni cosa, e che dovevo rimettere tutto nelle mani del Salvatore. È proprio quanto di più difficile ci sia: rimettere tutto nelle sue mani. Siamo così presi dal tentativo di tenere tutto per noi, tutto quello che abbiamo fallito, per cercare di continuare a controllarlo, a compensare, a riparare… Vogliamo conservare questa tristezza, come una sorta di versione negativa della Legione d’Onore, una decorazione che ci si guadagnerebbe a forza di perseveranza nel disonore, una medaglia da perdenti. Ma vede, la tristezza del non riuscire a perdonarsi è una malattia più penosa del fallimento stesso.
Che dici? Ti ritrovi nell’immagine del grasso incrostato? Tu come l’hai vissuta?
M. Sì, esprime perfettamente l’esperienza che si fa di riconciliazione con se stessi e il proprio passato: prima ti senti amato e perdonato, poi come una luce fulminante vedi con estrema chiarezza il tuo peccato e piangi di commozione perché, senza che neanche tu te ne sia accorto o abbia fatto alcunché, sei stato liberato. Da questo si riconosce una vera conversione: chi ancora si duole del proprio peccato, senza sentirsene graziato, non ha ancora fatto un incontro vero. Aggiungo anche che il brano che ferì il mio cuore fu proprio l’intero capitolo di Ezechiele 16, scoperto per caso su Internet.
G. Di questo parleremo un’altra volta, ora sciuperemmo l’argomento: siamo già andati belli lunghi. Volevo chiederti un’altra cosa. Hai accennato a tuo cugino e a tua sorella: ecco, ma in quei mesi nessuno si era accorto di niente? Nessuno ha provato ad aiutarti?
M. Beh sì loro han provato ad aiutarmi, ma facevano finta di niente perché ad un drogato non si dice che si droga e ad una prostituta non si dice mai che si sta prostituendo. O almeno così tutti pensano… ma è un grave errore perché io ho ricominciato ad esser una persona adulta ed integrata quando qualcuno ha avuto il coraggio – e la carità – di parlarmi con franchezza, usando anche cazzotti verbali!
Di’ cosa ne pensi