di Giovanni Marcotullio
Nei giorni in cui Theresa May ha fatto recapitare la lettera d’addio della perfida Albione all’Unione Europea, è d’obbligo soffermarsi a riflettere sul destino di quel sogno storico, politico e teologico che fu (o “sarebbe”, o “sarà”) l’Europa.
Cominciò decine di secoli fa col mito dello stupro imposto da un dio a una donna – felicissimo auspicio! –; fu perseguito da Cesare (Alessandro mirava più a est…), da Costantino e da Teodosio, da Carlomagno, da Ottone e in parte anche da Napoleone. Dopo il crollo delle ideologie del XX secolo furono alcuni magnanimi a raccogliere i cocci di quel sogno e a tentare di rimetterli insieme: Schuman, De Gasperi, Adenauer i primi tra loro. Poi sopraggiunsero i “tecnici”, a rivestire di istituzioni il carisma originario dei Padri fondatori. Le ultime puntate della telenovela ci hanno mostrato la faccia sorridente di Theresa May, che afferma di star compiendo “la volontà del popolo”, e quella corrucciata di Jean-Claude Junker, che vaticina pianti greci per i britannici (ma lui, l’avvocato lussemburghese, non si sa bene a nome di chi parli…).
Così ora mezza Europa – irritata da miriadi di grida tecnocratiche che vorrebbero spiegare ai pugliesi e ai campani come si fanno le mozzarelle – sogna di vedere il trionfo di Theresa May (quella con l’acca, eh: le agenzie di mezzo mondo hanno tenuto a farci sapere che conoscevano una sua quasi-omonima che fa la pornostar). L’altra metà si trincera a difesa dell’establishment. Sembrano le premesse, almeno virtuali, di una guerra di secessione europea. Salvo che i cugini americani, all’epoca, avevano già mezzo secolo di vera unione politica, una moneta che si consolidava in modo omogeneo e una situazione linguistica che, se non era normalizzata, di certo era lontana anni luce dal mosaico nostrano.
Come andrà a finire? Se c’è un profeta, si faccia avanti. Io dico solo che spero di non dover scegliere tra lo schieramento dei “populisti”* e quello dei “democratici”: ci dovrà pur essere una via media tra il colorito vaniloquio salviniano e il grigiore burocratico dei “tecnici”. Penso ai poveri Alcuino ed Eginardo, che innervarono col De civitate Dei il programma politico del Sacro Romano Impero, e mi dico che qualche scintilla di quell’ispirazione dovrà pur essere sopravvissuta sotto la cenere. Ricordo Giovanni Scoto Eriugena, che nel IX secolo, vivendo tra Scozia, Irlanda, Inghilterra e Francia, era ancora capace di leggere e scrivere in greco, come i bizantini (che nel frattempo si facevano chiamare semplicemente “ῥομαῖοι” [“romáioi”], romani).
Alla grande opera agostiniana non si deve certo l’idea di Europa (che non era nella mente dell’Ipponate), ma il suggerimento – forse ancora più utile e profetico – dell’opportunità di stabilire una effettiva laicità dello Stato. Nessuno si illuda – avvertiva Agostino dopo la scottatura del sacco di Roma –: la Chiesa avrà sempre fini e interessi irriducibili a quelli dello Stato. Cercare legami in tal senso fa immancabilmente del male, anzitutto alla Chiesa.
D’altro canto, la storia europea ha mostrato una capacità di analisi e di sintesi, nonché una brillante duttilità politica, tali da confortare chi aveva riposto speranze sul progetto. Disse Papa Francesco il 25 novembre 2014 intervenendo all’Europarlamento:
Il motto dell’Unione Europea è Unità nella diversità, ma l’unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero. In realtà ogni autentica unità vive della ricchezza delle diversità che la compongono: come una famiglia, che è tanto più unita quanto più ciascuno dei suoi componenti può essere fino in fondo sé stesso senza timore. In tal senso, ritengo che l’Europa sia una famiglia di popoli, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell’Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l’ideale dell’unità cui si anela alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni; prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; liberandosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie. Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività, sia a livello di singolo che di popolo.
E credo che in tal senso la voce della Chiesa – la quale già in passato salvò il deposito di cultura e civiltà raccolto in Europa – sia la sola che indica una via, ardua ma alta (e bella), per passare indenni tra l’individualismo e il collettivismo. Proseguiva ancora il Papa:
Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero! Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto. L’assenza di un sostegno reciproco all’interno dell’Unione Europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema, che non tengono conto della dignità umana degli immigrati, favorendo il lavoro schiavo e continue tensioni sociali. L’Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti.
E non so persuadermi che l’estendere i diritti dei cittadini europei ai migranti sotto ai 18 anni sia una gran trovata, in tal senso: mi pare che di fatto si dichiari uno ius soli al cubo, perché una persona avrà 18 anni di tempo per “nascere in Europa”. Ma se guardiamo alla storia, il titolo di “cittadino romano” fu esteso all’intero impero proprio quando il welfare imperiale stava collassando: ovvero lo si concesse a tutti quando non valeva più niente (e viceversa, non valse più niente quando lo concessero a tutti). Non un auspicio migliore dell’antico ratto di Europa, né una politica che sappia «al tempo stesso tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza ai migranti».
A ben vedere è un po’ lo stesso che accade all’interno dell’Unione stessa, quando per esempio in Italia un insegnante vive in un sadico gioco di scatole cinesi, per conseguire il proprio obiettivo, e poi è possibile che quanti hanno furbamente schivato le faticose scatole cinesi vadano a comprarsi l’abilitazione in Spagna e quindi ritornino (tanto sono tutte riconosciute, nella Comunità!),
col ghigno e l’ignoranza
dei primi della classe
In fondo tutto il mondo è paese, e quanto diceva Prezzolini riguardo ai furbi e ai fessi non varrà per gli europei meno che per gli italiani.
I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi.
Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente sulla magistratura, nella pubblica istruzione, ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. – questi è un fesso.
Dunque è opportuno riflettere sulla storia e sul destino di Europa. Breviarium apre perciò una sezione chiamata “Erasmus”, col nome dell’umanista enciclopedico e delicato che cercò sempre e in tutti i campi una mediazione (ma che fosse al rialzo!). Salutiamo quindi l’ingresso nel blog di Emiliano Fumaneri, alias Andreas Hofer, che da par suo ci darà man forte nell’onorare la memoria del complesso pacificatore di Rotterdam. Se nonostante tutto non ci riusciremo, ci consoleremo ricordando che almeno per noi quel nome non sarà stato il souvenir di un semestre di svacco.
*: tuttavia, il sussiego sprezzante con cui si usa questa parola per stigmatizzare insieme realtà anche molto diverse tra loro mi suggerirebbe una qualche simpatia per i secessionisti. La coscienza, però, non mi permetterebbe mai di abiurare a un sogno tanto grande e bello.
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