di Emiliano Fumaneri
L’uomo oggi è libero come il
viaggiatore disperso nel deserto
Nicolás Gómez Dávila
Non si può pensare ad Erasmo senza pensare anche all’esperienza del viaggio. Chi più del principe degli umanisti può dirsi la personificazione del viaggiare che, come si suol dire, apre gli orizzonti e spalanca le menti?
Ma le cose vanno, necessariamente, sempre così? Mettersi in viaggio è sempre una ricchezza?
Se diamo ascolto ai diktat dell’industria del turismo di massa sembra proprio così. Viaggia! Viaggia! Viaggia! È l’ingiunzione che appare oramai una specie di nuovo – e assillante – obbligo sociale. «Sì, viaggiare!», lo cantava anche il grande Lucio Battisti. Viaggiamo dunque!
Ma com’è allora che, quando pure abbiamo adempiuto con una certa solerzia il nostro dovere vacanziero, al ritorno sentiamo stringersi in noi un groviglio di insoddisfazione e vacuità? Da dove discende quell’inesprimibile sensazione di vuoto interiore? Possibile che il viaggio ci abbia addirittura impoveriti?
Sarebbe buona norma, almeno di cortesia, che prima della partenza gli organizzatori della nostra felicità si premurassero di darci un prezioso avvertimento – anche se antieconomico, dal loro punto di vista: c’è una maniera di viaggiare che, anziché riempire l’uomo, lo svuota.
Viaggiare è sinonimo di evacuazione quando viene inteso come semplice attività vacanziera. Vacanza, non a caso, è prestito del latino vacare (esser vuoto, sgombro, libero, non occupato) nonché parente stretto di vanus (vuoto, inutile, frivolo). È il vagare da turisti alla ricerca di evasione. Il viaggio come narcosi: si viaggia per dimenticare o, come si dice abitualmente, per «staccare», per «non avere pensieri».
Ma staccare da che? Da un lavoro sempre più insignificante e opprimente, magari. Naturale che si cerchi un conforto nelle comodità del confort. Il viaggio così è indistinguibile da una pausa lavorativa prolungata. È la versione moderna del tuffo nel Lete, il fiume nel quale, secondo gli Antichi, le anime morte trovavano l’oblio.
Il viaggio si riduce a una variazione sul tema del divertissement: il divertimento come distrazione e stordimento.
Il divertissement, quella specie di maligno cambio di rotta (di-vertere) che aveva attirato l’attenzione di un Pascal. Una sapienza umana universale lo ha sempre avvertito: fare il pieno di effimero lascia vuoti. Di più: degrada la nostra umanità. Pinocchio, dopo aver trascorso mesi “di cuccagna” nel Paese dei Balocchi, “con sua grande meraviglia, sente spuntarsi un bel paio d’orecchie d’asino e diventa un ciuchino, con la coda e tutto”. Stessa sorte tocca in dote a Ulisse e ai suoi compagni, attirati dai sortilegi di Circe che apparecchia loro “le carni infinite e il dolce vino” soltanto per rinchiuderli nei porcili, ché “già di porci essi avevano la testa, corpo, setole e voce”.
Nella civiltà tecnologica l’esperienza del viaggio si è poi legata a doppio filo alla funzione esonerante della tecnica, tanto che sempre più l’«homo comfort» sogna di trasmigrare all’infuori di sé, forse in un corpo robotico. A tal punto abbiamo messo tra parentesi la nostra umanità? Fino ad auspicare una inaudita ibridazione con le macchine per sfuggire alla nostra condizione esistenziale?
L’idea stessa di limite appare ora come il nemico da abbattere. Push it to the limit! Open up the limit! Nothing gonna stop you! Crash the gates! È la voce della hybris che spinge tra le braccia della némesis Tony Montana, il criminale parvenu protagonista di Scarface.
Ma sia che si approdi al robot oppure alla bestia, in tutto questo viaggiare contemporaneo è sempre dall’umano che ci si vuole congedare.
L’evacuazione umana propria dell’esperienza del viaggio come “alleggerimento” è l’ultima cosa che ci possa arricchire. Al «cyborg» e all’«homo comfort», pertanto, è decisamente preferibile l’«homo viator».
C’è infatti un viaggiare che riempie, che colma davvero la nostra umanità. È l’attività corrispondente al duplice senso della parola viaggio: viaticus, “relativo alla via”, e viaticum, ovvero “l’occorrente per il viaggio”. Nell’Antichità «homo viator» era il messaggero, colui che percorreva una via ben tracciata per trasmettere un messaggio. Fu con la Patristica che l’«homo viator» cominciò a indicare l’essere in sequela: l’uomo che segue con fiducioso abbandono il cammino già tracciato da Cristo, l’uomo capace di riconoscersi a un tempo secondario e sicuro. Qui in nuce c’è già tutta l’Europa, l’unica civiltà della storia che debba la propria grandezza al suo riconoscersi debitrice, gregaria, secondaria.
“Cammina l’uomo quando sa bene dove andare”, cantava l’indimenticabile Claudio Chieffo. Il viaggio arricchisce l’uomo consapevole di avere una meta da raggiungere ma anche un’origine da cui attingere. Solo un’umile certezza rende capaci di contatti non superficiali con l’«estero» (vale a dire con chi è esterno, forestiero, estraneo).
Si sta veramente viaggiando solo quando si è in ricerca della profondità. E ciò presuppone una concezione dell’uomo come struttura complessa, densa, costruita con arte e logica, come una cattedrale. Non è forse questo, per tornare al punto di partenza, il vertice dell’ideale umanistico?
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