di Giovanni Marcotullio
Qualche giorno fa Claudia mi chiedeva cosa pensassi del post “L’8 calante” di Costanza Miriano. «E che vuoi pensare», risposi anzitutto dentro di me: è difficile trovare dei graffî più carezzevoli di quelli che sa fare Costanza quando si parla di certi guaî della nostra amatissima Chiesa, e del resto è quando fa così che più mi spumeggia nel cuore l’orgoglio di godere da anni della sua amicizia. Ma la faccenda resta pur sempre penosa: perché la gente di Chiesa, e intendo quella storicamente militante, si intiepidisce riguardo all’opportunità di sostenere nel concreto i bisogni ecclesiali?
Trovo anch’io dimenticabile la dichiarazione rilasciata dagli ufficî CEI deputati all’8‰: “Troppi scandali”? “La gente chiede trasparenza e legalità”? Per piacere, siamo serî: viviamo in un Paese estremamente tollerante, quanto a certe “leggerezze clericali”, che in parte sono le nostre e in parte presentano caratteristiche specifiche. In forza dei pruriti che li circondano, i peccati carnali degli ecclesiastici infedeli alle loro promesse sono i più chiacchierati, tra i fedeli laici; ma sono pure i più volentieri perdonati – «la carne è debole», si sa. I peccati di avarizia e prodigalità fanno più fatica a mandarli giù, di solito: un po’ perché la crisi è dura e faticare per arrivare alla fine del mese quando c’è gente che sperpera denaro fa rabbia; un po’ per un’esigenza di giustizia ed equità in sé; un po’ per l’aspettativa di coerenza quanto ai precetti evangelici e alla tanto declamata “opzione preferenziale per i poveri”. Ma anche qui c’è una citazione evangelica ricaduta in proverbio popolare: «Fa’ quello che il prete dice, non quello che il prete fa». E in questo non si deve apprezzare solo l’italica tendenza ad abbozzare fino all’estremo (salvo che poi, quando è troppo, all’improvviso “succede un Quarantotto”…), ma anche il genuino sensus fidei cristiano che riconosce alla fede la sua veridicità perfino a dispetto delle controtestimonianze. Non siamo donatisti, non siamo pelagiani, non siamo catari, non siamo giansenisti: miserabili lo siamo tutti e per tutti (se ci pentiamo) c’è la misericordia.
Ma tutto questo non spiega perché il gettito dell’8‰ nel 2017 dovrebbe calare di ben 150 milioni, cioè perché – posto che l’ammontare medio della deduzione fiscale a favore della Chiesa è di circa 65 euro – 2 milioni e 300mila italiani (e rotti) dovrebbero aver preso una decisione così drastica. Soprattutto considerando che, non deducendo l’8‰ dell’Irpef a vantaggio della Chiesa cattolica, quei 65 euro non restano certo in tasca a loro… Due milioni e trecentomi… oh, che numero suggestivo: quasi mi viene da pensare che la fotografia scelta da Costanza a corredo del suo post volesse essere già una risposta.
Ma tralasciamo le suggestioni, che pure meritano il loro spazio (e difatti vedo che sotto al post di Costanza se n’è parlato in lungo e in largo): vorrei qui spezzare una lancia a favore delle galanterie di certo clero. «In che senso?», mi direte. Ecco, quel giorno un amico rilanciò su Facebook il quesito posto da Costanza, più o meno con queste parole: «E voi, amici, che ne pensate del crollo dell’8‰? Quale sarà la causa?». Provocatoriamente, risposi con le immagini che vedete sparse in questo post, aggiungendo la didascalia: «Ti basta come risposta?». «Abbondantemente», fu la replica dell’amico.
E questo ci interroga a fondo: me ne scusino gli irriducibili avversarî di Papa Francesco (il Papa è il Santo Padre), ma se a qualcuno fosse passato in mente un parallelo tra il crollo dello share per le dirette televisive da San Pietro (ne parlavo qui con Aldo Maria Valli), neppure questa nota sarebbe più che “suggestiva”. L’orrido lezionario della Cei, infatti, è entrato in vigore per l’Avvento del 2008 (anno A del ciclo triennale previsto dalla Liturgia romana). Era Papa Benedetto XVI. Era Presidente della Cei Angelo Bagnasco, che da pochi mesi era subentrato a Camillo Ruini. Era segretario generale della Cei Mariano Crociata, che da meno tempo ancora aveva sostituito il neoeletto arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori. Tutti nomi “incensurati”, in fondo, anzi: i primi tra questi suonano spesso quali garanzie di sicurezza dottrinale. Dunque?
Dunque torno un attimo sul lezionario, visto che l’ho definito “orrido”, e spiego (dopo 9 anni) per quali ragioni non penso di aver esagerato, e perché ritengo che lo sforzo valso la sua produzione sia in sé uno scandalo, il quale più volte mi ha personalmente incitato a non devolvere l’8‰ (ma preciso che anche io, come Costanza, sono uno strenuo assertore della bontà di questo istituto!). Sorvoliamo sulla traduzione, ché non è direttamente inerente al prodotto editoriale finale. Chi può dimenticarsi che, appena aperto il primo volume, la prima lettura della prima domenica d’Avvento recava la raccapricciante didascalia “dalla prima lettera di san Paolo Apostolo ai Romani”? Ma perché, quante diavolo di lettere ai Romani ci sono, nella Bibbia? Ma scherziamo? E sfogliando si sono trovate bizzeffe di questi orrori incredibili, per i quali i cervelloni che hanno prodotto l’impiastro non hanno trovato di meglio da fare che mettere a disposizione nelle librerie (gratuitamente!) delle pagine di adesivi correttivi per coprire l’inguardabile. Sono recentemente stato in una parrocchia laziale in cui non avevano mai sentito parlare di questi stickers: la “prima lettera ai Romani” e cento altre amenità sono ancora lì. Chissà quante ce ne sono, di parrocchie così, in Italia… Ma poi le formattazioni dei paragrafi sono spesso viziate da spaziature e crenature così forzate che il colore di pagina ne risulta compromesso anche a sguardi inesperti (d’altronde ho scoperto pochi giorni fa che in un importante Dicastero della Curia Romana i volumi degli Atti vengono impaginati con Word – ancora mi sanguinano le orecchie!). E tralasciamo l’impaginazione, badiamo alla robustezza del prodotto: come fa un libro che viene soltanto sfogliato e riposto con reverenza a vedersi rovinare i dorsaletti in meno di dieci anni, e com’è possibile che nello stesso tempo i sedicesimi si stacchino dal tessuto cui erano stati incollati? Con cosa li avevano dunque incollati? Ci sono Harmony che resistono molto più di dieci anni, tra le mani sudate di signore più materialmente coinvolte del lettore parrocchiale medio! In questo quadro, lo scempio delle immagini è solo una spia, ma vale da segnale di un disorientamento totale che – con singolare dispendio di energie (economiche, se non altro) – assurge a prosopopea di una presunta e autoproclamatasi intelligencija.
E tuttavia questo avveniva nel 2008, mi pare importante ricordarlo: si era in pieno papato ratzingeriano – e un’opera del genere non si imbastisce in un mese. L’amico al cui post avevo risposto con le foto del lezionario, difatti, commentava sibillinamente: «La lunga marcia…». Marcia sicuramente: è una frase bella, vera (e indefinita) come “c’è del marcio in Danimarca”. Dunque, che dire?
Dico questo: non c’entrano gli attuali vertici Cei, né i loro predecessori più o meno remoti. Non c’entra il modernismo nella Chiesa né il mondo moderno in sé. Tutt’altro. C’entra una crisi dell’audacia iconografica cattolica che da un certo momento in poi non è stata più capace di generare le tragiche visioni di Caravaggio, né le ambiziose narrazioni cosmiche dei mosaici ravennati, né le tormentate figure chiastiche di Michelangelo. E neppure il muto dramma dell’arte povera medievale riesce a rivivere nell’eloquente inettitudine tecnica di “artisti” che, il più delle volte, non sanno tenere il pennello in mano (e nei peggiori dei casi non hanno idea di cosa raccontare all’osservatore).
Perché dico così? Perché so che Dolce & Gabbana lavorano in uno studio pieno zeppo di immagini sacre (quelle belle, di prima dell’oblio: non quelle con gli occhî a pesce bollito), e dall’agiografia estraggono la forza vitale che brilla nei loro lavori, l’audacia pubblicitaria che li rende capaci di persuadere un passante distratto, in un secondo, per strada, a voler essere come il modello proposto. Di questo era maestra l’agiografia. Ora l’arte sacra, con alcune lodevoli eccezioni, genera sensazioni oscillanti tra il disagio, la noia e il disgusto; la buona pubblicità, invece, recupera quella sacra vis. Lo si vede in modo esemplare nell’Ultima cena di Brigitte Niedemair, della quale leggerete in giro cose del tipo:
[…] Così, come Leonardo rappresenta il momento più drammatico del Vangelo quando Cristo annuncia il tradimento di uno degli apostoli […], l’artista racconta la centralità della vita di tutti i giorni. È un grande omaggio alla forza creatrice del femminile, un omaggio a chi regala al mondo la vita e a chi è spesso vittima di violenza e sopruso e affronta il dolore, diventando anche oggetto simbolico di sacrificio collettivo.
Tutte fesserie. Il fatto è che chiunque riconosce in quel particolare schema compositivo la resa del dramma universale dell’uomo-Dio sacrificato per i nostri peccati. Il mysterium fidei è un taboo nel vero senso del termine (altro che tabù… macché, le liquirizie?): è la sconvolgente rivelazione pubblica del proprio segreto. «Io vivo per la morte di qualcuno – dietro la mia pretesa rispettabilità c’è un’ombra di tradimento atavico e di menzogna». E – benché Leonardo fosse il più laico dei genî rinascimentali – l’osservatore resta rapito. Il resto è fuffa, didascalia buona per un giornale da parrucchiera (con tutto il rispetto per le parrucchiere, gente che invece ha i piedi per terra).
Ora, questa fuffa è precisamente quella che siamo costretti a produrre quando ci corre l’obbligo di inventare interpretazioni passabili per quei bozzetti che la nostra epoca sterile applaude come “arte”. Come sta scritto:
Scambiarono la loro gloria con la figura
di un toro che mangia fienoSal 106,20
E per questo sono felice di salutare l’ingresso, nella piccola ciurma di Breviarium, di Claudia Cirami, che per molti lettori non avrà bisogno di presentazioni: firma stabile de La Croce, Claudia si è fatta apprezzare in molti ambienti per la sua peculiare costanza nella ricerca, chiarezza nell’esposizione, fedeltà libera alla Verità da lei conosciuta e amata. Domattina leggerete dalla sua penna la presentazione di un personaggio intrigante della comunicazione visiva: una di quelle matite che possono anche turbare perché, a differenza di certi libri, sembrano avere qualcosa da dire.
Traduzione pessima e immagini terrificanti! Ogni mattina a Messa per me, lettrice mio malgrado, è una fatica immane…
Caro Breviarum.. Sulle immagini ho l’orticaria. Oscene, ossia “non c’azzeccano nulla”; anzi peggio, distraggono. Come uno che va in smoking in spiaggia o fisicamente desnudo in udienza dal Santo Padre.
Sulle traduzioni mi sono già espresso su ilcattolico.it qui 7 anni addietro https://www.ilcattolico.it/catechesi/spiritualita/malvagita-o-empieta.html
Non sempre sono felici e veicolano il significato delle lingue originali.