Normalmente si ricorre alla combustione delle palme della Domenica di Passione, per preparare le ceneri da spargersi sul capo all’inizio della Quaresima. Un bel simbolismo che richiama l’unità dell’anno liturgico e il senso della reiterazione dei misteri di Cristo nel tempo.
Tutto molto bello, dunque. Adesso che ho già in testa “l’austero segno” delle ceneri, però, vorrei tornare ai festosi coriandoli del Carnevale di sangue di cui dicevo ieri. Sicuramente anche dalle stelle filanti si può ricavare della cenere, e forse l’effetto che ne viene può fare più “Maddalena penitente”.
Questa qui sopra è la foto postata dalla pagina Facebook de La vita in diretta per lanciare via social lo spazio comunicativo di suor Myriam Castelli mentre in studio si parlava del caso “DJ Fabo” e in collegamento c’era Marco Cappato. La consacrata paolina, esperta di comunicazione, è riuscita a tenere ben salde le ragioni della vita, senza scivoloni mediatici di sorta. E sì che il piano era sdrucciolevole, oltre che inclinato… Eppure non solo il presentatore Marco Liorni era palesemente orientato sulla tesi radicale; non solo il pubblico in studio e a casa era massicciamente schierato dalla parte di Cappato; ma basta dare un’occhiata ai numerosi commenti lasciati sotto la semplice frase “non è libertà togliersi la vita” per restare impressionati da tanta violenta acredine. Com’è possibile che un’intera società sia arrivata a considerare gesto di pietà non solo l’uccisione di una persona (si sa, il caso singolo può sempre impressionare), ma anche l’estensione istituzionale di una pratica che di fatto renda legale l’omicidio?
Nessun precedente
Questa è una cosa che mi sconvolge perché – vado a memoria – non esiste un precedente simile, nella storia dell’Occidente. Ma neppure analogo (e mi correggano gli amici giuristi)! Un soldato che uccide in guerra, un militare che uccida in una sommossa, un cittadino che uccida un ladro… tutte queste persone fanno una cosa che mai smette di essere chiamata “omicidio”. Il fatto che per questa azione grave e irreparabile, unicamente a certe condizioni, non siano sanzionate, non muta la natura di quell’atto. Recentemente ho incontrato Maurice Bignami, ex terrorista rosso. Mi ha colpito sentirlo dire: «Si può diventare ex terroristi, non si può diventare ex omicidi».
Non che avesse ragione l’ispettore Javert a dire che «quando il male è fatto è per sempre»: ogni male, grazie a Dio, può preludere a una rinascita di bene; ma non smette per ciò solo di essere male. Chissà perché tante persone (io fra quelle) non hanno difficoltà ad ammettere che – ove risultasse comprovato che Stefano Cucchi morì di pestaggio in carcere – i responsabili dovrebbero espiare una pena esemplare; quelle stesse persone sono le stesse a non concepire la vessazione mediatica che ha portato Carlo Placanica (il carabiniere che nel 2001 uccise Carlo Giuliani in Piazza Alimonda a Genova) a minacciare il suicidio. Certo, sono tutti omicidi, anzi Placanica lo è senz’altro, gli altri no (non ancora): eppure sarebbe ingiusto far fare all’assassino di Carlo Giuliani anche solo un giorno di carcere, mentre molti decenni dovrebbero toccare a chi avesse ucciso Stefano Cucchi.
Non cambia la materialità del gesto, insomma, ma le circostanze e il fine ne mutano il suo portato morale: un soldato può essere un eroe nazionale, e resta comunque materialmente un assassino. Ma quando mai la civiltà occidentale ha concepito una barbarie come l’eutanasia (se non appunto nelle sue pagine più buie, come quella del Terzo Reich)? E dice la sacrosanta verità, Mario Adinolfi, quando osserva che almeno lì i “pazienti” non pagavano per il “trattamento”: lo Stato risparmiava somme ingenti somministrando banali veleni ai disabili e ai dementi; oggi lo spirito del turbocapitalismo supera quello del nazionalsocialismo in quanto, prima di scannare le pecore malate, le tosa. «Questo non accadrebbe – osservano i radicali – se ci fosse una legge, se fosse lo Stato a occuparsi del trattamento». Insomma, i radicali preferiscono il nazismo semplice. Basta dirlo.
«Cara mamma, perché non muori?»
Ho già scritto diverse volte che il presunto “diritto a morire” non è un diritto perché non corrisponderebbe a un’obbligazione uguale e contraria di per sé evidente alla coscienza umana, la quale dovrebbe suonare suppergiù – per assurdo – come il “dovere di uccidere”. Questa cosa non esiste, e allora è chiaro che gli alfieri di certe battaglie vogliono fare la strada inversa, in termini filosofici: vogliono creare il dovere di uccidere dopo aver millantato il diritto a morire. Quale può essere il fine di un’assurdità simile, se non la promozione di una società eugenetica, che seleziona i “forti” scartando i “deboli” e crea “vite degne di essere vissute” bruciando quelle “indegne”?
Sì, perché in realtà pensiamo (anche) alla qualità della nostra vita, quando giudichiamo “insufficiente” quella di chi dipende in tutto da noi e ci costringe a casa come una palla al piede. Niente viaggi, niente cinema, niente discoteca, niente coupé, niente moto… e che vita è questa? Ma la nostra, prima di tutto. E come fanno, quelli che hanno inveito contro suor Myriam (erano quasi tutte donne, commentava sconsolata la mia amica Margherita), a non capire che tra venti o trent’anni saranno proprio i loro nipotini – cotti a puntino nel brodo di cinismo da loro preparato – a dir loro: «Cara mamma, non vedi quanto siamo tutti infelici a starti appresso? Non è meglio se ti addormenti una volta per tutte? Tu non soffri, noi non conserveremo un ricordo sgradevole di te… faremo anche un bel discorso al funerale e forse ci mancherai pure!»
Gabriella, una donna che ho amato (poco)
Ma visto che la filosofia non interessa ad anima viva, e considerato che forse certe persone invocano ad alta voce la maledizione di Primo levi sulla loro casa
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
voglio raccontare brevemente una storia d’amore. A questa donna, che ho amato purtroppo meno di quanto avrei dovuto, devo molto del poco buono che c’è in me. Si chiamava Gabriella, viveva nell’ospedale camilliano di Bucchianico (San Camillo era di lì – non l’ospedale che assume macellai, dico il santo abruzzese di cui il nosocomio usurpa il nome). La prima volta che la vidi fu suor Giovanna a farmela conoscere: facevo servizio di caritativa in quel monumento alla Carità, e sorridendo lei mi portò nella stanza di Gabriella. Un odore forte mi accolse nella stanza, e quando feci capolino dietro al suo paravento dovetti dominarmi con tutto me stesso per non fare un salto indietro. Il salto, forse, non lo feci, ma scoprii ben presto come non fossi riuscito a nascondere la smorfia di disgusto che mi si era dipinta in faccia.
Non ero preparato a quello spettacolo: Gabriella sembrava letteralmente crocifissa, per la posizione in cui teneva bloccate le braccia, e non muoveva che le ultime due falangi delle dita delle mani, oltre alla testa. Non capii, in quel momento, quanto profondamente mi avesse guardato dentro (e sennò perché gli evangelisti usano per Gesù il verbo ἐμβλέπω?), ma in realtà in quel momento ero il principe superbo della fiaba, e di fronte a me stava l’orrida mendicante con la rosa incantata in mano.
Suor Giovanna mi presentò a lei e subito mi chiese di aiutarla a cambiarle il pannolone, e io mi misi di buzzo buono per nascondere la mia ripugnanza. Il viso e il contegno erano sotto controllo, mi pareva, ma quando la spogliammo restai di sale per la difficoltà nel toglierle il pannolone: la spina dorsale era attorcigliata come una spirale, e tutto il dorso ne seguiva scompostamente il movimento colchide. Le costole, le vertebre, l’ombelico, i seni, tutto si gettava orrendamente contro l’armoniosa geometria anatomica che la natura dispiega meravigliosamente.
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Solo che lì, in Gabriella, risplendeva di più. E io ero ancora così cieco da non sospettarlo nemmeno.
Dopo averla cambiata, suor Giovanna mi suggerì di raccontarle qualcosa di me. Dopo pochi minuti Gabriella mi interruppe e cominciò a farmi domande, come accade in ogni conversazione. Solo che io non capivo una sola parola che uscisse dalla sua bocca: sarà che c’era un unico dente dentro, sarà che la posizione supina non aiutava, fatto sta che vissi l’imbarazzo di guardare costantemente suor Giovanna. Lei capiva benissimo, e Gabriella le faceva larghi sorrisi (incantevoli sorrisi senza denti…) ogni volta che lei traduceva il senso delle sue frasi nel mio idioma povero e scarno.
Non ricordo che qualcosa, nelle mie risposte, non le fosse piaciuto, ma non dimenticherò mai la nettezza con cui Gabriella volse la testa e lo sguardo dall’altra parte quando io (invitato a ciò dalla dolcissima suor Giovanna) osai avvicinare alle sue labbra un cucchiaio di minestra. Non era un capriccio, né che non avesse appetito: quella donna non voleva me, e mi rifiutava. Suor Giovanna mi prese piatto e cucchiaio dalle mani, in un secondo Gabriella tornò a sorridere e prese a mangiare. Io stavo là come un salame, che mi tenevo la guancia come se mille sonori schiaffi di mille splendide attrici mi si fossero stampati in faccia.
Quindi facemmo pace, dalla visita successiva. Mi guardava ancora con l’aria di chi mi dava un’altra chance ma mi permetteva di imboccarla e di pulirle la bocca. Imparai a sperare di vederla sorridere e ad amare il suono di quell’unico dente sul dorso del cucchiaio. Imparai la sua lingua, quando presi ad amarla, e un bel giorno ci trovammo anche a cantare, mentre suonavo per lei la chitarra. Solo da gente che pregava nello Spirito e parlava in lingue ho sentito suoni che somigliassero ai suoi ululati di giubilo.
Poi non potei più andare. Tornai a trovarla dopo un anno e qualche mese. Suor Giovanna mi accolse sulla porta con un sorriso gioioso e mesto: «Non troverai chi cerchi», mi avvertì subito. E mi raccontò come era morta Gabriella, a causa di una febbre che le aveva infettato i già angusti polmoni. «Le sue ultime parole sono state per te, Giovanni». «Per me?», ribattei io incredulo. «Sì, anzi per noi due: è morta pregando per me e per te».
…
Da quel giorno non sono più tornato a Bucchianico e non so se suor Giovanna sia ancora lì o dove l’abbiano mandata. So che Gabriella ha fatto di me l’uomo che sono, almeno per qualche aspetto positivo. E so che medito sulla maledizione di Primo Levi: forse non si abbatterà su di me. Io lo so, sì, che questo è un uomo, e conservo nel mio cuore queste parole
quando esco e quando rientro,
ora e sempre
Una testimonianza toccante.
Grazie, Giovanni.
Anch’io non dimenticherò mai il sorriso felice di un bambino con una disabilità molto grave. La vita era lì, con lui, senza troppi giri di parole. La sfida più grande è restituire il sorriso a chi lo ha perduto, non aiutarlo a morire.
Giovanni, che bello! Dio ti benedica per queste parole.
E tu, Gabriella, prega per noi e per il nostro cuore duro.
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energia in relazione.