«Molto bello, il nome… ma forse ti connota più di quanto tu possa desiderare…»
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«Ma perché “breviarium”, scusa? È una cosa da prete!»
Ecco le prime due reazioni che ho raccolto, ieri, quando ho condiviso l’idea di aprire un mio blog personale. Va bene, vi ascolto e ne discutiamo, ma non credo che sentirò ragioni: in realtà il lampo che mi ha portato in testa il nome è lo stesso che mi ha dato «quella forza / che ti serve quando dici “si comincia!”».
“Brevïarïum”… sì, scanditelo bene sottovoce: riempitevene la bocca per qualche attimo come Renzo Arbore quando dice “plastica” [lo show-man napoletano si definisce da decennî “collezionista di plastica”]. È una delle invenzioni più rivoluzionarie della storia della cultura occidentale, forse la più grande dopo i monasteri medievali (e non a caso le due cose sono strettamente legate): ogni volta che vado ad Assisi non posso fare a meno di fermarmi in contemplazione davanti al bellissimo breviario di san Francesco, che le monache clarisse custodiscono nella cripta del Protomonastero di santa Chiara insieme con il saio, il mantello e le babbucce del Poverello.
Certo colpisce subito il fatto che il figlio del mercante di stoffe non ritenesse necessario cambiare il mantello liso o la corta tonaca di sacco (e in Umbria, d’inverno, può far freddo davvero). Ma si sa, Madonna Povertà è una signora gelosa, e chi agli altri avrebbe comandato «che l’amassero a fede» non poteva tirarsi indietro davanti alle esigenze de «la donna sua più cara». Epperò il breviario di Francesco è uno splendido libro, sul taglio delle cui pagine ancora scintilla l’oro applicatovi secoli fa. Qualcuno dubita che il libro avesse il taglio oro fin dal principio, fin da quando Francesco lo possedette, ma codeste son questioni di lana caprina, né più né meno che chiedere se in una Maserati gli interni in pelle siano di serie o no. Il breviario è un oggetto straordinario in sé, e Francesco è stato rivoluzionario (e anche “anti-rivoluzionario”) a volerlo.
“Perché?”, dite? Anzitutto per il dato materiale e per il valore di mercato intrinseco: un simile codice di fogli di pergamena rilegati in sedicesimi e scritti a mano richiedeva, per essere prodotto, più abilità e più competenze di quelle necessarie a costruire una cattedrale (non dico in senso iperbolico) – si capisce che il suo valore fosse altissimo. Chiunque l’abbia comprato deve aver sborsato una somma non molto inferiore a quella che poteva richiedere una casa. E ovviamente fa impressione che questo oggetto sia stato voluto e posseduto da un uomo votato alla più nuda povertà, da uno che non si procurava nuovi abiti per sostituire i proprî cencî sbrindellati, e che alla fine «al suo corpo non volle altra bara» [Per approfondire, “The Breviary of Saint Francis”, Franciscan Studies 9/1 (1949), 13–25].
Ma poi c’è un altro aspetto, anche più potente perché non vale solo per Francesco (ovvero è quello per cui il Poverello si obbligò a possedere un oggetto così lussuoso): il breviario era la novità del secolo, la rivoluzione editoriale che raccoglieva in un solo volume, per giunta tascabile, i contenuti essenziali di una quantità di altri libri. Dall’invenzione del codice, avvenuta mille anni prima (e sempre in àmbito cristiano…), non si era più vista un’idea altrettanto nuova. Ecco, la Liturgia delle Ore – quell’alchimia letteraria della poetica giudaica inzuppata nel latino dell’Occidente romano-barbarico – richiedeva parecchî alambicchi, notevoli accortezze, per esistere: ci voleva il Salterio, ovviamente, ma pure l’Antifonale. E l’Innario era un altro libro, e il Lezionario un altro ancora. E poi c’era il Santorale, e quindi ancora il Temporale… tanti e tali erano gli ingredienti necessarî che i monasteri dovettero inventarsi i leggii giganti ancipiti, posti nel bel mezzo del coro, perché da una parte e dall’altra i monaci potessero leggere sui grandi codici miniati che tutti abbiamo visto (troppo spesso nei musei, purtroppo).
Il breviario fu la trovata inaudita che fece esplodere il deposito di genio estetico e spirituale della cristianità medievale, per così dire, ai crocicchî delle città: gli ordini mendicanti avrebbero incanalato per vie inedite l’offerta religiosa della Chiesa, stagionata per secoli negli scriptoria, in risposta alla domanda dell’epoca nuova, che già si annunciava.
Era l’epoca di Francesco, ed era stata l’epoca di Valdo; era l’epoca di Domenico e presto sarebbe stata quella di Dante, e poi di corsa sarebbero seguiti Petrarca e Boccaccio… era un’epoca tanto religiosa quanto secolare, un tempo radicalmente laicale. In realtà, ora che ci penso mi dico che non so se la Chiesa possa vantarsi di aver prodotto un’altra invenzione altrettanto laicale, dalla vocazione più sfacciatamente secolare.
Per questo sfoglio i giornali, prendo atto del decadente declino del nostro tempo e mi dico: davvero quello che ci serve è una “Benedict option”? Non sarà che invece ci occorre una “Breviary formula”? Intendiamoci, l’ultima volta che ho citato la “Santa Regola” di Benedetto, conversando con un amico, non è stato più tardi di mezz’ora fa, ma ho come l’impressione che alle volte l’invito alla “resilienza” eluda un po’ l’obbligo alla “resistenza”: ricordo di aver letto tempo fa un’intervista a Francesco D’Agostino, per esempio, nella quale il noto filosofo (cattolico) si diceva praticamente intenzionato a “conservare” il deposito della civiltà per “dopo”. Dopo quando? «Quando i barbari se ne saranno andati», sembra di capire. E fino ad allora? Sì, lo so che D’Agostino (qui sulla resilienza e qui sul “dopo”) non è propriamente un esponente della “Benedict option”, e so pure che – in linea di principio – i suoi veri e proprî teoreti non si propongono affatto di scambiare la resistenza con la resilienza. In linea di principio, appunto.
Ecco, io penso che anzi la “Benedict option” possa essere efficace solo se accompagnata da una “Breviary formula”, come il cuore ossigena i muscoli e pulisce i polmoni solo nell’alternanza di sistole e diastole. Penso proprio che ci vorrebbe un breviarium, e vorrei utilizzare questo spazio telematico come filtro osmotico tra il monastero e il crocicchio.
[…] ut excusationem nemo habeat in die iudicii, voluit, sicut scriptum est, consummare et breviare verbum super terram […]
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[…] perché nessuno potesse accampare pretesti nel giorno del giudizio, [Dio, N.d.T.] volle ricapitolare in breve la Parola sulla terra, come sta scritto [cf. Is. 10,23] […]Agostino, Sulla disciplina cristiana 2.2
“Consummare et breviare” è un po’ più di “ricapitolare in breve”, in effetti: significa portare a maturazione, a compimento, e chiaramente questa è un’opera superiore alle forze di qualsiasi uomo. Apro un blog con questo intento, però, perché credo che la sua condivisione possa raccogliere un cenacolo di pensieri, e di affetti, e di volontà.
Non con parole mie, ma del poverello, sottolineo la preziosità dei misteri di Cristo per Francesco, vissuti nella liturgia..
FF 787 2Cel :
“Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con. ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato ad un seno umano. Baciava con animo avido le immagini di quelle membra infantili, e la compassione del Bambino, riversandosi nel cuore, gli faceva anche balbettare parole di dolcezza alla maniera dei bambini. Questo nome era per lui dolce come un favo di miele in bocca.
Un giorno i frati discutevano assieme se rimaneva l’obbligo di non mangiare carne, dato che il Natale quell’anno cadeva in venerdì. Francesco rispose a frate Morico: “Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino. Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno.”
Lieto di leggere il tuo blog, oltre che i tuoi articoli su La Croce Quotidiano…
Una curiosità: le indicazioni contemporanee della Crusca per il plurale dei termini in -io non ti piacciono punto? http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/verit-prego-plurale-termini
Lieto di accoglierti anche qui. In realtà proprio a quelle indicazioni mi rifaccio, quando posso scrivere liberamente. Una patina arcaizzante, che non ricerco di per sé, è cosa preferibile al far west degli omografi indistinguibili. Il guajo è che uno comincia con gli omografi e poi non si fermerebbe più…
Non in modo esatto però: ad esempio qui scrivi “decennî” nonostante la “i” non sia tonica. Naturalmente la stessa Crusca (nella persona di Vera Gheno, che tra l’altro è anche lei su twitter se non sei già suo follower :-) ) ricorda che è solo una scelta recente quella di limitare l’accento circonflesso ai plurali di termini con “i” tonica, quindi forse tu ti riferivi alla seconda parte dell’articolo…
Sì, appunto a quella. In realtà, l’incoerenza dello scrivere “decennî” sta nel fatto che non esiste un omografo con altro significato: in altre epoche, però, l’italiano scritto ha saputo avere attenzione per le lunghezze delle vocali, oltre che per gli accenti tonici (o almeno per le lunghezze di quelle vocali che incidevano pesantemente sull’accentuazione tonica). Così secondo la norma della Crusca si dovrebbe scrivere “principî” per giustificarne l’accento e distinguerlo da “principi”, ma poi penso a quanto sia utile il ˆ in francese (anche i francofoni fanno strame delle loro belle norme grammaticali) e mi lascio andare usandolo più largamente. Almeno qui sul blog, dove posso fare un po’ come mi pare.