Altra notarella di storia & teologia, visto che oggi a messa si ascolta il toccante passo di Giosia che ascolta la lettura del libro ritrovato nel tempio dai sacerdoti (il Deuteronomio): il re si alza, si straccia le vesti e dice “ecco perché il Signore è così arrabbiato con noi, neanche sapevamo tutte le cose che voleva – adesso chiamiamo il popolo e gli leggiamo questo libro tutto d’un fiato!”.
C’era da finire quella famosa riforma di Ezechia, cominciata una cinquantina d’anni prima (più o meno come ora c’è da applicare il Vaticano II, con fedeltà e senza derive…). Ezechia era abbastanza energico e abbastanza buono da spendersi senza riserve per la causa. Era un tradizionalista riformista, diciamo, uno che faceva le riforme per ripristinare [≠restaurare] una migliore fedeltà ai patrii istituti (mi ricorda il giovane Ratzinger, per dire).
Insomma, se si guarda a tutta la storia della monarchia in Israele dopo Saul, Davide e Salomone… Giosia è sicuramente il migliore di tutti i re: giovane, pio, devoto, buono, coraggioso, zelante e generoso. Si sarebbe meritato di governare il doppio degli anni di Carlomagno, e invece non arrivò neanche a quarant’anni di vita (altro che i settanta di regno del Re Sole…).
«La storia ci racconta / come finì la corsa», ed è una morte banale e “stronza” come quella di Achille, ucciso quasi per caso da una freccia di uno che passava di lì. Stavolta non era Paride con la scorta di Apollo, ma Necao con la scorta di Ra (sempre un reale e un dio del sole, comunque): il faraone transitava con l’esercito in Palestina per andare in soccorso degli Assiri, che non se la vedevano bella per via di una guerra con Medi e Babilonesi – Giosia (che forse cercava di mettere in sicurezza il nord del suo regno con qualche cuscinetto territoriale mangiato all’Assiria) pensò di mettere lo sgambetto alle truppe di Necao, e un arciere dell’esercito egizio lo colpì. Giusto il tempo di arrivare a Gerusalemme, o poco più, e il giovane e pio re esalava l’anima.
Fine di una piccola storia triste.
Troppo triste, in realtà, perché finisse lì. Anche il buon Dio non ci faceva una bella figura. Così si sviluppò un’elaborazione ulteriore – i moderni l’avrebbero chiamata “teodicea” – volta ad anticipare che il Signore, giusto e buono, avrebbe certamente fornito delle spiegazioni ragionevoli per quell’increscioso incidente (diventato l’emblema di tutto il male ingiusto, del male che cade sui giusti). Ora, l’incidente era avvenuto nella pianura di Meghiddo, che si sviluppava alle pendici di un monte: quel monte sembrò dunque ai teologi dell’epoca lo scranno ideale per far sedere Dio – nella triplice veste di imputato, avvocato di Sé stesso e giudice di tutti – e così, poiché in ebraico “monte” si dice “hàr”, la parola “Armageddon” (= “il monte di Meghiddo”) divenne il nome dell’evento finale della storia, quando «Dio asciugherà ogni lacrima» dai volti di chi ha pianto. Il buon Giosia avrà regnato poco, ma resta in fondo il pegno di una giustizia più grande, che deve ancora compiersi: «Signori benpensanti – pare dire Giosia a tutta la storia dalle pendici di Armageddon – spero non vi dispiaccia, / se in cielo, in mezzo ai santi, / Dio, fra le sue braccia, / soffocherà il singhiozzo / di quelle labbra smorte / che all’odio e all’ignoranza / preferirono la morte».
Tieni presente la morte di Giosia, Signore: «Meglio di lui nessuno / mai ti potrà indicare / gli errori di noi tutti / che puoi e vuoi salvare: / ascolta la sua voce, / che ormai canta nel vento. / Dio di misericordia, / vedrai, sarai contento. / Dio di misericordia, / vedrai, sarai contento» (Fabrizio De André).
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