di Piero Citati
L’anno scorso, la casa editrice Adelphi ha pubblicato Limonov di Emmanuel Carrère, un libro divertente, estrosissimo, qualche volta volgare, che ebbe un grande successo di pubblico. Edouard Limonov è un personaggio realmente esistente: teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di miliardari a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato in Bosnia, capo partito di giovani estremisti a Mosca, nemico di Putin: nero, scandaloso, duro, arrogante, invidioso, erotomane, pieno di odi, capace di uccidere e sopratutto di ubriacarsi per settimane. Attorno a lui, Carrère rappresentò una Russia molto diversa da quella che abbiamo immaginato e immaginiamo: con nascosti, profondi rapporti tra il potere politico e l’underground, specialmente nell’epoca di Brežnev. Allora gli scrittori ufficiali sapevano di aver venduto l’anima; e sapevano che gli altri lo sapevano. Molti si rifugiarono nell’alcol: alcuni, come Fadeev, si suicidarono: i più furbi, che erano anche i più giovani, impararono a giocare contemporaneamente su due tavoli: pratica divenuta possibile, visto che al potere sovietico facevano comodo questi semidissidenti moderati ed esportabili.
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Nel 1999 Emmanuel Carrère aveva scritto L’avversario, che Adelphi pubblica in questi giorni. È un libro bellissimo, tanto sobrio, tragico e pieno di tensione quanto Limonov ostentava i suoi colori sgargianti e picareschi.
La mattina del sabato 9 gennaio 1993, Jean-Claude Romand, che viveva a Prévessin, non lontano da Ginevra, uccise la moglie, i due figli, e il giorno dopo il padre e la madre. Poi incendiò la casa dove abitava. Quando l’incendio venne scoperto, i corpi dei bambini furono portati via in due sacchi di plastica grigia, sigillati. Jean-Claude Romand, l’unico rimasto vivo, aveva il battito del polso debolissimo: era in pigiama, privo di sensi, ustionato, ma già freddo come un morto. Appena si risvegliò dal coma, raccontò al giudice che un uomo vestito di nero era entrato in casa forzando la porta, aveva sparato ai bambini e appiccato il fuoco. Pochissimo tempo dopo, il giudice scoprì che aveva mentito: in realtà Jean-Claude Romand era l’unico assassino; e tutta la sua vita, che venne rapidamente alla luce, era stata una immensa menzogna. Invece che il mite marito, padre, medico, che gli amici conoscevano, era Satana, l’Avversario.
Come il giudice, Emmanuel Carrère rimase profondamente affascinato da questa tragica storia di simulazione. Non aveva mai conosciuto un mistero simile, e voleva portarlo alla luce, come se svelando quel mistero tutti i misteri del mondo venissero svelati. Jean-Claude Romand sembrava il più normale degli uomini, ed era diventato uno spaventoso assassino: forse non era qualcuno che aveva fatto qualcosa di agghiacciante, ma uno al quale era accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache. Emmanuel Carrère ricalcò i suoi passi, provando una straziante simpatia verso quell’uomo, che aveva errato senza meta, un anno dopo l’altro, chiuso nel suo assurdo segreto: un segreto che non poteva confidare a nessuno, e che nessuno doveva conoscere, pena la morte. Mentre scriveva il proprio libro sulle peste dell’Avversario, aveva vergogna: paura e vergogna, come se egli stesso avesse detto quelle menzogne e ucciso i suoi famigliari, perché dalla storia di Jean-Claude Romand emanava un terribile contagio.
Jean-Claude Romand era stato un figlio unico, forse troppo coccolato dai genitori: giudizioso, calmo e ubbidiente. Non combinava mai guai: ispirava più stima che simpatia, ma non per questo veniva considerato infelice. Padre e madre gli avevano insegnato a non mentire: questo era un dogma assoluto; un Romand aveva una parola sola, un Romand doveva essere limpido e cristallino come l’acqua di fonte. Quando diventò interno al liceo, era un adolescente solitario, poco portato per lo sport, intimidito non tanto dalle ragazze, che per lui abitavano un altro pianeta, quanto dai compagni più svegli che si vantavano di frequentarle. Diceva di aver trovato conforto in una fidanzata immaginaria, ma gli psichiatri si chiedevano se non se la fosse inventata per loro uso e consumo. Malgrado il delitto, Luc, il più caro dei suoi amici, sosteneva che Jean-Claude «era un tipo profondamente gentile», e insisteva su quella parola, gentile, sebbene il suo delitto fosse atroce, senza la minima traccia di gentilezza o di tenerezza.
Poi venne la prima menzogna: raccontò di essere stato aggredito da uno sconosciuto; probabilmente inventò questa menzogna per rendersi interessante. Al processo, disse che non sapeva se l’aggressione era avvenuta o non era avvenuta. Quando giunse il momento di scegliere una facoltà universitaria, la famiglia voleva che egli studiasse agrotecnica e si occupasse di alberi, come avevano sempre fatto i suoi. Sebbene amasse gli alberi, Jean-Claude rinunciò a questa professione. Decise di studiare medicina: diventare medico gli consentiva un’ascesa sociale che desiderava moltissimo. Toccare i corpi sofferenti gli ripugnava, ma lo attrasse l’idea di acquisire conoscenze sulle malattie: secondo gli psichiatri che lo interrogavano, avrebbe potuto divenire un eccellente psichiatra.
A questo punto avvenne la menzogna definitiva, che determinò la sua futura esistenza. Non andò all’esame di medicina: ma annunciò ai suoi che era stato promosso, e ammesso al terzo anno. Le menzogne si moltiplicarono: continuò a non presentarsi agli esami, non frequentò i reparti ospedalieri, non aprì uno studio medico; ma raccontò alla fidanzata e alla famiglia di aver vinto il concorso per diventare medico ospedaliero a Parigi, di essere stato assunto come ricercatore all’Inserm di Lione, e poi distaccato presso l’OMS di Ginevra come responsabile di un gruppo di ricerca. Inventò una storia d’altro genere: raccontò all’amico Luc di avere un cancro — un cancro dallo sviluppo lento —; gli amici più intimi sapevano che viveva portandosi dentro una bomba ad orologeria, che prima o poi lo avrebbe devastato, ma che per il momento dormiva in fondo alle sue cellule. Forse avrebbe preferito essere malato di cancro piuttosto che di menzogna – perché anche la menzogna era una malattia, con la sua eziologia, i rischi di metastasi, la prognosi riservata. Continuò a mentire, legato per sempre alla sua ossessione.
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La menzogna lo obbligò a condurre una vita immaginaria: doveva occupare il tempo del lavoro e trovare una fonte di guadagni. Così la mattina accompagnava i figli a scuola, dove scambiava qualche parola con le insegnanti e le madri degli altri scolari, che ammiravano la sua devozione di padre. Poi andava a Ginevra: comprava un fascio di giornali e li leggeva in macchina o in un bar sempre diverso; a pranzo mangiava un panino, e camminava per i boschi, che amava moltissimo. Oppure diceva di far viaggi, per congressi, seminari e convegni: mentre si chiudeva in un albergo di Ginevra, in camera da letto, e di lì telefonava a casa, raccontando che tempo faceva a Tokyo o a San Paolo. Quanto allo stipendio, aveva trovato modo di truffare i genitori, i parenti, un’amante. Non sappiamo cosa provasse, davanti a queste bugie. Certo, non un senso di appagamento o un’euforia beffarda all’idea di riuscire ad ingannare tutti in modo così magistrale. Provava angoscia? O immaginava in che modo sarebbe finalmente esplosa la verità? O non provava assolutamente nulla, trasformato in un automa capace di leggere, di camminare e di parlare agli esseri umani? Le sue menzogne non nascondevano niente: sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand; non c’era nessuna esistenza nascosta, ma il vuoto.
L’ultimo anno di libertà trascorse sotto una pesante minaccia. Ogni volta che incrociava qualcuno, che qualcuno gli rivolgeva la parola, o a casa il telefono squillava, l’angoscia gli stringeva lo stomaco: forse l’ora era scoccata, il suo imbroglio stava per essere scoperto. Il pericolo poteva arrivare da qualunque parte: il più banale avvenimento della vita quotidiana poteva dare il via a un finale catastrofico, che nulla sarebbe stato in grado di fermare. Più il colpo tardava, più diventava disperatamente inevitabile. Si sentiva stanco, spossato. Si addormentava sul divano, o in auto a qualsiasi ora. Gli ronzavano le orecchie, come se fosse stato in fondo al mare. Gli faceva male il cervello: avrebbe voluto estrarlo dal cranio e dargli una lavata. Sapeva che la sua vita era marcia dentro, e che niente, né un attimo, né un gesto, e neppure il sonno, poteva sfuggire a quel marciume. Gli era cresciuto dentro, e a poco a poco aveva divorato tutto dall’interno, senza che dal di fuori si vedesse niente. Ormai non restava altro.
Infine, il colpo esplose. L’amante gli aveva dato una grossa somma da investire: un giorno la volle avere indietro: lui l’aveva spesa completamente, e non gli restava nulla da restituire. Si comportò come il re di una partita a scacchi minacciato su tutti i fronti, al quale rimaneva una sola casella libera. Si impegnò. Avrebbe restituito il danaro il 9 gennaio 1993; e invitò l’amante a cena per quella sera. Fin dall’inizio, aveva immaginato che la conclusione logica della sua storia sarebbe stata il suicidio; e sino alla fine, lesse libri sul suicidio, e il dizionario dei farmaci, immaginando di iniettarsi una dose mortale di veleno. Non sapeva quale soluzione scegliere: se uccidersi, come la logica avrebbe voluto; o chiudere la sua enorme menzogna con un grande massacro.
Quasi senza saperlo e senza dirselo, optò alla fine per il massacro. Così, il giorno destinato, uccise la moglie con un mattarello, cancellando l’omicidio dalla memoria: rimase qualche tempo davanti alla televisione con i due figli: li coccolò, sussurrò loro parole affettuose: li assassinò con la carabina: pranzò con il padre e la madre, che abitavano in un’altra casa, uccise entrambi, li avvolse in un copriletto; e uccise il cane che adorava, avvolgendolo poi in una trapunta azzurra. Giocò con il telecomando, registrando frammenti di trasmissioni diffusi da decine di canali: probabilmente cancellò alcuni amplessi con la moglie, che aveva registrato su una cassetta. Era il momento di morire. Lui rinviò, sempre di nuovo, quel momento. Aspettò le tre di mattina per versare delle taniche di benzina, cominciando dalla soffitta e spargendo la benzina sui bambini, la moglie e le scale. Non riuscì ad uccidersi: perché non voleva uccidersi.
Quando gli psichiatri lo interrogarono, rimasero sorpresi dalla precisione con cui Jean-Claude Romand si esprimeva; e sopratutto dalla costante preoccupazione di dare di sé un’immagine positiva. Aveva un contegno calmo, ponderato: un’attenzione quasi ossequiosa verso le domande dei suoi interlocutori. Durante i colloqui successivi, lo videro singhiozzare e mostrare segni palesi di sofferenza: ma non furono in grado di dire se fosse sincero o simulasse. Poi Romand attraversò una fase religiosa: pregava: meditava: esaltava il Natale e l’incarnazione di Cristo: diceva di scrivere «in comunione» con la moglie e i figli che aveva ammazzato; sostenendo che il suo De Profundis si trasformava in Magnificat e tutto attorno a lui diventava luce. Credeva o non credeva alle sue menzogne e alle sue immaginazioni? Gli psichiatri avevano l’impressione di trovarsi di fronte a un robot, totalmente incapace di provare sentimenti, ma programmato per recitare ora secondo un’idea psicologica di sé stesso ora secondo un’altra.
Mentiva sempre? Qualche volta sembrava che Jean-Claude Romand non recitasse, ma sentisse intimamente la tragedia che attraversava, e la soffrisse in tutti i suoi momenti. Esisteva dunque un vero dottor Romand, sepolto sotto l’angoscia e il marciume della menzogna? Tutto era incerto. Sia gli psichiatri sia Emmanuel Carrère rimasero perplessi davanti alla vicenda del Grande Simulatore.
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