Chiara, l’infanticidio e l’aborto: alcune “ovvietà” da sfatare

Leggevo che nonni e fidanzato di Chiara, la mamma che ha compiuto un doppio infantidicio sui due neonati partoriti in casa e poi seppelliti in giardino, hanno dichiarato che avrebbero certamente aiutato la ragazza a crescere i propri figli, se avessero saputo e, il padre, a sua volta, che NATURALMENTE avrebbe tenetuo il bambino perché era suo figlio (un dato ovvio?).

Beh, anche in questo caso, la prima “ovvietà” da sfatare è proprio l’accoglienza naturale, in quanto famiglia, del figlio.

Facciamo un passo indietro, di nuovo, come per altri fatti di cronaca commentati: i due neonati volutamente uccisi dalla madre, poche ore prima erano nel grembo di quella stessa madre.

Di più, pochi mesi prima erano nel suo grembo.

Di più, nove mesi prima erano gli stessi neonati, solo in luogo, forma, e fase di sviluppo diversi.

Insomma abitavano uno spazio, un’esistenza, una relazione differente e unica, come accaduto nella vita di ciascuno di noi che ora siamo qui a commentare attoniti.

L’ovvietà non è concessa in questa società, mi dispiace comunicarvelo: è troppo, umanamente ed eticamente parlando, rivestirsi di tanta ipocrisia soltanto perché la morte inflitta è mostrata in tutta la sua evidenza e brutalità sotto i nostri occhi.

Siamo ipocriti se utilizziamo ordini di giudizio diversi, dal punto di vista morale, per il medesimo male solo perché quello stesso male (l’uccisione diretta e volontaria di un bambino innocente) non può più essere occultato alla coscienza di chi scende in piazza urlando “diritti” e “il corpo è mio quindi decido io”, ma viene denudato dalla violenza di un atto bestiale, brutale. La clinica non muta la verità dell’IVG. L’ambiente non muta la freddezza e l’inumanità del processo abortivo. Il termine legale entro il quale poterlo sopprimere non muta le conseguenze sul figlio, men che meno sulla madre e le persone coinvolte.

Ci sono, oggi, profili accademici, politici, autorità del mondo scientifico ostetrico-ginecologico e non solo, una grande massa culturalmente lobotomizzata e filosoficamente ignorante, che accetta di buon grado, sostenendolo con ogni fibra del poprio essere personale e professionale, l’aborto fino al nono mese di gravidanza. Ci sono le stesse e più persone che sostengono l’aborto dal concepimento a un periodo da definirsi, a seconda delle circostanze o dei desideri della madre.

E, di grazia, come pensate avvenga?

Con una carezza?

Cosa pensate sia la procedura abortiva, soprattutto chirurgica? Cosa pensate significhi abortire?

Cosa credete senta quel bambino chiamato grumo di cellule, embrione, prodotto del concepimento, feto?

Ha ragione Peter Singer, filosofo bioeticista, animalista e abortista convinto, quando denuncia l’incoerenza logica di chi sostiene l’aborto e non l’infantidicio entro un certo anno d’età a seconda degli interessi dei genitori e della capacità senziente del bambino, che lo determina come persona o non-persona.

Ha ragione quando sostiene che l’atto non cambia. Provo orrore verso le tesi di Singer, ma le provo anche nei confronti di chi mi risponde che abortire è come togliere un un’appendice. Ripropongo a costoro la domanda di Palmaro: e perché, se logica non mente, quando qualcuno si toglie un’appendice la società non parla di “dramma” o “sconfitta sociale”, come invece avviene quando affronta il tema aborto? Evidentemente perché ciascuno di noi sa che un bambino non è un’appendice.

Quindi no, non è ovvio nemmeno naturale che una famiglia aiuti ad accogliere un figlio “perché è figlio, nipote”.

Non lo è perché abbiamo normalizzato culturalmente la pratica abortiva come legittima, quindi buona. Un passaggio indebito, ma permeato nel sentire comune: “se la legge lo consente, allora va bene”. Ebbene non è così: se un domani, come accaduto in tante altre questioni bioetiche, il mondo perbenista e progressista decidesse che Singer ha ragione con la diretta conseguenza di legalizzare l’infanticidio per evitarne la clandestinità e mettere in sicurezza i genitori che decidono di farlo eseguire volutamente, con essi i bambini (!) che nelle cliniche verrebbero uccisi con morte degna anzciché brutale, e procedesse, come al solito, con un martellamento psicologico, sociale, culturale, politico, filosofico di normalizzazione, cioè un lavoro di accettazione di un fenomeno o idea dapprima considerata riprovevole/assurda, chi si opporrebbe? Sarebbe giusto perché legalizzato? Evidentemente no, la barbarie resterebbe barbarie. Il punto diventerebbe far percepire la barbarie alla massa. E questo punto preciso è insidioso. Una volta accettato un male morale come un bene di diritto o possibile, nella mente dell’uomo avviene un sovvertimento tra giusto e ingiusto/bene e male, che spalanca le porte alla banalizzazione del male. Quest’ultima anestetizza l’umanità e per questo accade che l’umano si faccia brutale e con freddezza uccida per poi andare a New York a divertirsi o a mangiare una pizza. Quindi inorridiamo perché era normale, una brava ragazza?

Un commento, ma vi avviso di non darmi come feedback cose del tipo “ma che vai a paragonare” ecc., perché sarebbe solo una risposta a conferma di questa diseducazione morale e filosofica che continuo a denunciare: Hannah Arendt non venne compresa quando disse pubblicamente che il male del nazismo era stato compiuto da persone normali, che non sapevano più distinguere tra vero e falso, tra bene e male, e per questo obbedire agli ordini era divenuta la loro legittimazione individuale, l’assoluzione alla colpe commesse. Non si percepivano colpevoli perché era consentito fare ciò che avevano fatto e tanto gli era bastato assieme all’approvazione generale e culturale (sorvolo su questione propaganda, indottrinamento, regime del terrore, ecc).

Il punto è questo: il diffondersi di una cultura dello scarto e la persecuzione di tutti coloro che osano levarsi democraticamente, liberamente, legittimamente contro di essa impedendo il dubbio, produce una banalità di pensiero difficile da contrastare.

Se una madre può uccidere il suo stesso figlio nel suo grembo, distruggere la carne della sua carne, Vita della sua Vita e frutto del suo amore, perché ci sorprendiamo della violenza e del terrorismo che si sparge intorno a noi? (S. Madre Teresa)

Permettetemi una brevissima parentesi, un po’ polemica, che purtroppo non riesco a trattenere. “Ragazza brava, frequentava l’oratorio”, notizia che per i giornalisti nostrani deve essere evidenziata. Se questa ragazza frequentava l’oratorio potrei immaginare che esiste una debolissima probabilità che frequentasse anche la Messa domenicale (lo so, una speranza illusoria, ma teniamo questo scenario utopico come reale).

Se così fosse, faccio un appello che va al di là del dramma in questione: sacerdoti, avete l’occasione ogni domenica di scuotere le coscienze almeno qualche volta, almeno in una delle omelie della giornata, a decine di fedeli, perciò vi prego trovate il coraggio di parlare anche dell’aborto. Fate arrivare il problema alle persone perché oggi le persone non vogliono arrivare al problema. C’è bisogno. Nessuno ne parla, ma il male morale e spirituale che genera in chi lo compie, in chi aiuta/favorisce/coopera, in chi rifiuta di far desistere la donna a compierlo pur avendone la possibilità, nei famigliari, è devastante. Non parlarne è un modo per impedire di aiutare quelle donne, quelle famiglie, di salvare quei bambini. Anche l’aborto è un problema di diritto alla vita, assieme a tanti altri che invece sento trattare ogni domenica perché più “accettabili”. Compromettetevi per la verità e il bene.

Ci sono santi sacerdoti che, al contrario, ne parlano e fanno di tutto per spiegare alle persone la ragionevolezza di essere per la vita: trovate da loro la forza di parlare, purché parliate. I santi non hanno avuto timore. Il Papa su questo tema ha usato estrema chiarezza, senza ambiguità e come lui i suoi predecessori. Anziché affermare, come purtroppo ho dovuto sentire in una parrocchia nel padovano, che “tradizione, regole e precetti sono la perversione della fede”, facendo passare il messaggio erroneo “fate quel che vi pare, tanto Dio perdona tutto e vi accetta come siete per quello che fare” (come poi ha affermato aggiungendo una nota arcobaleno all’omelia!), senza approfondire la colpa, la responsabilità, la grazia del perdono a seguito del pentimento e il bisogno di agire per il bene (quindi con giudizio), spiegate il significato del comandamento “non uccidere”.

Smettiamola con la storia del non giudicare: noi non dobbiamo condannare la persona, ma giudicare gli atti (scelte), cioè compiere un discernimento è nostro dovere e chiunque, anche chi non vuole giudicare, lo fa. Altrimenti non si potrebbe parlare di nulla, nemmeno del caso di cronaca in questione perché il senso del bene e del male sarebbe rimesso al sentire di ognuno ed evidentemente il sentire di questa mamma l’ha portata a giudicare come bene quel che stava compiendo. Questo è l’inganno del relativismo, tanto combattuto da Papa Benedetto XVI.

Altra suggestione: se non parliamo della verità dell’aborto non aiuteremo mai, concretamente, le donne e i padri. Se, al contrario, si iniziasse a tollerare un dibattito (parlo soprattutto in termini mediatici, culturali e politici) sul tema, dove viene messo in crisi il valore dogmatico di un “diritto all’aborto” (inestistente), forse più figure politiche potrebbero trovare il coraggio di agire per la vita e per le donne, al di là di qualche slogan piazzato a dovere. Ad esempio, si potrebbe informare sul parto anonimo oppure prendere in mano la pdl sulle culle per la vita, realtà che offre una via d’uscita alla madre se non intende tenere il figlio e a quest’ultimo, di sopravvivenza.

La responsabilità è comune.

Questo il post di Giulia Bovassi, col suo consenso riportato qui su Breviarium

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